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Il Kamut, coltivato in Canada e Usa, ma è l’Italia il maggior mercato mondiale

Lug 4, 2016
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Dal 1986 a oggi ha trasformato un cereale antico quale il Khorasan dalle altissime proprietà nutrizionali in un fiorente business planetario e in un’arma potente per tutelare terreni e ambiente, grazie ai rigidi disciplinari di coltivazione biologica per tutta la filiera, certificata dai campi alla tavola. Oggi Bob Quinn, il guru del grano Kamut, spegne le prime trenta candeline della sua Kamut International facendo tappa in Italia, il più grande mercato della multinazionale americana, dove accarezza il progetto di una partnership extra-ordinaria con un produttore leader di pasta del settore, per far uscire il grano Khorasan dalla nicchia e propagare un modello di consumo di massa ecosostenibile e responsabile.

Che sia in dirittura d’arrivo una partnership con Barilla? «Ci siamo incontrati, ma la firma di un accordo è il mio sogno per i prossimi trent’anni di Kamut», risponde il pioniere del biologico del Montana, intervistato a Bologna, cappello da cow boy in testa e il sorriso genuino di chi preferisce parlare di tecniche colturali rotative che di bilanci aziendali e affari commerciali.

Bob Quinn, chi c’è dietro a un marchio aziendale che ha registrato un grano millenario arrivato dalla Mesopotamia e ne ha fatto un business mondiale?

C’è un agricoltore e una famiglia di agricoltori, da sempre. Siamo partiti nel 1986 presentando per la prima volta alla fiera Natural Products Expo West in California il grano gigante Khorasan bio della nostra azienda, la Montana Flour&Grains e da allora non ci siamo più fermati. Kamut International è una società familiare posseduta da me, i miei genitori, mia moglie, i miei figli, mia sorella e suo figlio. Abbiamo registrato il marchio per proteggere da frodi questa varietà di grano, chi lo coltiva e chi lo consuma e per valorizzarne la qualità attraverso costanti investimenti in ricerca. Investimenti che si concentrano qui a Bologna principalmente.

Kamut International ha in piedi collaborazioni con l’Alma Mater?

Sì, ed è il motivo per cui io almeno due volte l’anno sono qui a Bologna, dove stiamo portando avanti da oltre un decennio con i dipartimenti universitari progetti di ricerca scientifica per studiare proprietà nutrizionali e salutistiche del grano Khorasan e per migliorare gli standard di coltivazione organica. Investiamo migliaia di euro ogni anno in ricerca. In Nord America (i due terzi dei campi coltivati a grano Khorasan Kamut si trovano in Canada e un terzo negli Usa, ndr) stiamo portando avanti il secondo anno di un progetto di ricerca con una trentina di agricoltori certificati per affinare le tecniche agronomiche rotative, con il duplice obiettivo di migliorare l’ambiente ed elevare la produttività.

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L’Italia è il primo mercato per il suo marchio, con oltre 300 aziende licenziatarie e più di 70 aziende convertite al biologico al fine di entrare nella filiera Kamut. Ma il grano certificato è quasi tutto importato: perché non promuovere anche qui lo sviluppo di una filiera locale?

Le rese dei campi in Europa e in Italia sono molto basse dal punto di vista qualitativo, ma io credo che ci sia spazio per sviluppare una agricoltura biologica di grano Khorasan anche qui. Il vero obiettivo del marchio Kamut è far diventare cultura diffusa il rispetto e l’attenzione all’ambiente, a metodi di coltivazione sostenibili, alla qualità e varietà di ciò che mangiamo. Mi piacerebbe si sviluppasse in Italia una filiera completa, anche no-branded ma biologica, perché l’effetto contaminazione è il primo veicolo per diffondere una cultura ecosostenibile. Il grano Khorasan biologico è oggi una piccolissima nicchia nel mondo che ha titolo per ambire a crescere.

L’impressione è che in Italia ci sia pure un forte effetto “moda” per il marchio Kamut…

Confermo che Kamut International fa l’85% del proprio business in Europa e il 75% è in Italia, il nostro più grande mercato. E su più di 2mila prodotti a base di grano Kamut, oltre l’80% arriva dal vostro Paese, che si è inventato prodotti come il gelato e le bibite al Kamut: la creatività italiana è sorprendente. Siamo sbarcati in Italia 25 anni fa avviando un contratto con un pastificio, Roberto Becchini, oggi non esiste più. Ci avevano sconsigliato di investire qui e invece abbiamo tenuto duro, dopo 5-6 anni abbiamo debuttato al Sana, il Salone internazionale del biologico di Bologna, e lì in fiera ci siamo resi conto delle centinaia di prodotti alternativi che le vostre aziende realizzavano per i fatti loro.

Insomma, Bologna è diventata la sua seconda casa?

E’ diventata sicuramente il nostro quartier generale: qui abbiamo 4 persone full time che si occupano di Italia, Spagna e bacino del Mediterraneo su un totale di 16 dipendenti nel mondo fra Kamut International e Kamut Enterprises of Europe (la costola europea con sede in Belgio, ndr). Noi ci occupiamo di tutelare il marchio lungo tutta la filiera e autorizziamo ogni nuovo prodotto, ma la distribuzione è svolta da aziende partner.

Perché tutto questo successo per Kamut lungo lo Stivale?

Dovrei chiederlo a voi! Io credo ci siano due-tre caratteristiche particolari in questo Paese quando si parla di alimentazione: la generale e diffusa attenzione al cibo e al benessere, la capacità di riconoscere subito gli alimenti sani e innovativi, la passione per odori e sapori della buona tavola. E la pasta e il pane al Kamut quando cuociono hanno il profumo di una volta, oltre ad avere straordinarie proprietà nutrizionali.

Qual è il suo piatto italiano preferito?

Insalata caprese, semplicissimi pomodoro e mozzarella. E non mi dica che li posso mangiare anche in Montana, non sono la stessa cosa!

Bob Quinn consuma tutti i giorni il Kamut?

Assolutamente sì. Comincio la mattina con i cereali Kamut a colazione, mia moglie prepara quasi tutti i giorni il pane fatto in casa con il Kamut e un paio di volte alla settimana mangiamo la pasta al Kamut.

Ha festeggiato i primi 30 anni del suo marchio. Che cosa si aspetta dai prossimi 30 anni?

Io allora mi avvicinerò ai 100 anni, credo avrò passato il testimone alla prossima generazione, che è già in azienda. Mio padre è morto lo scorso anno, a 94 anni, e aveva lavorato fino a pochi anni prima guidando i trattori nelle nostre tenute in Montana, mi piacerebbe fare lo stesso. Perché credo che il modello familiare sia importante per salvaguardare i valori etici e di qualità dietro al brand Kamut, senza nulla togliere ai grandi trust multinazionali. Che sicuramente potrebbero rendere più potente e ricco il marchio ma temo proteggerebbero meno i nostri coltivatori e i nostri consumatori.

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