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L’audace tradizione dei vini Orange diventa un film

Giu 19, 2016
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“Il vino lo devi fare con l’anima. Il guadagno può anche arrivare, dopo. Ma non puoi lavorare la terra pensando di diventare milionario”. In queste parole di Joško Gravner, dense di un sapore autentico, è sintetizzata la scommessa che lo ha spinto dal 1997 a produrre un vino bianco lasciato a fermentare assieme alle bucce per un lungo periodo di tempo e, dal 2001, a puntare sulla vinificazione in anfora, sul modello “originario” appreso in Georgia.

Parte dalla sua esperienza quasi ventennale la narrazione di “Skin Contact: Development of an Orange Taste”, il documentario sugli orange wines firmato da Laura Michelon e Mike Hopkins (produzione Bottled Films) e presentato in anteprima nazionale al Ristorante La Montecchia di Selvazzano (Padova).

Parola chiave: autoctonicità

Trenta minuti per raccontare come nascono i vini sottoposti a macerazione sulle bucce, per comprenderne la natura “rivoluzionaria” di un processo che ha generato anche reazioni controverse, ma che vede oggi una curiosità crescente nei consumatori. Il documentario concentra l’attenzione sulla filosofia dell’autoctonicità che affonda le radici nella tradizione, andando pure oltre biologico e biodinamico.

È un ritorno al passato, ma soprattutto un forte balzo nel futuro, tant’è che in molti seguono l’esempio di Gravner nella sua idea di riportare il vino al suo significato originario. Ciascuno ha un proprio percorso e una propria cultura orange, tanto che il documentario affianca al produttore del Collio friulano le storie di Angiolino Maule da Gambellara, fondatore dell’Associazione VinNatur, e Daniele Piccinin, viticultore a cavallo tra Soave e la Lessinia. Sono “tre generazioni di coltivatori di uve indigene, lontani tra loro ma vicini per il profondo legame tra la natura e l’uomo”, congiunti sullo schermo da una sorta di filo rosso che attraversa le regioni e le generazioni.

Gravner, il “patriarca” degli orange italiani

“Il vino per me è una cosa spirituale. Lavori molto, ma non è detto che poi i risultati arrivino. Ci vuole tanto tempo, come per la nascita di un bambino. E non è detto che poi i risultati siano buoni”. Oggi Joško Gravner usa parole intense per descrivere una relazione paterna con la terra e con i vini della sua famiglia.

Non sembrava pensarla così quando concentrava in cantina tecnologie e grandi quantità. Ci sono però due momenti cruciali di passaggio per l’azienda a cavallo tra Collio friulano e Slovenia. Nel 1996 due disastrose grandinate distruggono il 95% della produzione e, tra sconforto e riflessione, le poche uve raccolte vengono utilizzate per fare le prime prove di macerazione della ribolla. Dal 1997 tutti i vini vengono macerati in grandi tini di legno, senza alcun controllo della temperatura, per una o due settimane. Nel 2001 il nuovo cambio di passo: inizia la vinificazione nelle grandi anfore in terracotta interrate che Joško ha visto e ha scelto nel Caucaso, nella zona dei Kakheti, perché lì l’argilla non ha cadmio e piombo.

Certo non tutte le uve si adattano alla lavorazione old style, ci vuole una buccia di qualità, resistente ma non troppo spessa. Dunque il buon vino deve nascere da un buon frutto.

Viene spontaneo chiedersi se quello degli Orange Wines non rischi di diventare più un trend modaiolo che una filosofia di qualità. Gravner sembra però scettico: “l’utilizzo di queste tecniche è talmente fuori dagli schemi che penso sia destinato a rimanere su piccoli numeri. È vero, ci sono produttori giovani che stanno facendo ricerca e avvicinando gli antichi procedimenti, ma credo rimarrà pur sempre una nicchia. Purtroppo a partire dalla domanda dei consumatori, perché se in tanti si nutrono di cibo dopato o comunque frutto di processi industriali, come possono bere vino genuino? Sarebbe un controsenso”.

What’s wrong with it?

C’è un interessante passaggio del documentario di Michelon e Hopkins nel quale un ristoratore conferma che talvolta la prima reazione di un consumatore ignaro di fronte a un Orange Wine è quasi di disappunto, fino ad arrivare a chiedersi se ci sia qualcosa di sbagliato.

Questo non accade al La Montecchia di Selvazzano – conferma il direttore (e sommelier) Mauro Meneghetti – ma sta al sommelier comprendere se i clienti sono in grado di accettare una proposta fuori dagli schemi. E se il vino diventa buono e naturale, gli habitué sembrano gradire le proposte.

Va detto però che l’esperienza diventa davvero interessante – gradevole per il palato e stimolante per la curiosità – quando la cucina si impegna a capire il prodotto Orange. In questo senso la presentazione a La Montecchia non è stata una semplice degustazione, ma la mano dello chef Massimiliano Alajmo ha creato un menu abbinato ai vini dei tre produttori che ha saputo armonizzarsi con le caratteristiche peculiari dei singoli vini.

Un esempio? Assaggiando a freddo il Bianco Montemagro 2014 di Piccinin si può rilevarne l’acidità marcata, ma accostato all’Orto extravergine di oliva (base pomidoro con condimento di capperi e olio) il bilanciamento è perfetto. Così come il Risotto di zucchine, curry nero e crema di carote duetta amabilmente con il Pico 2011 di Maule e i Tortelli di cipolla al fumo e cenere esaltano la potenza del Ribolla 2007 di Gravner. Forse solo la Barbabietola travestita da “petto di piccione” con radicchi amari risultava in posizione di debolezza rispetto al robusto Rosso Breg 2004 di Gravner, mentre il Gioco di frutta e il Pan(e)tone Josko reggevano il Recioto 2002 di Maule.

Il documentario è disponibile sul sito di Bottled Films (bottledfilms.com) al costo di 5 euro. Sul sito si può vedere anche il trailer.

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