• 24 Aprile 2024 2:58

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Se le terapie anti Covid “alternative” le prescrivono i giudici

Set 8, 2021

Dopo che un primo giudice aveva costretto un ospedale in Ohio a somministrare Ivermectina per trattare un caso di infezione da Sars-CoV-2, nonostante il parere negativo dei medici, ieri un secondo giudice ha ribaltato la decisione, stabilendo che il primo aveva errato, perché i giudici “non sono medici né infermieri”, e non possono superare il parere dei professionisti quando si tratti di somministrare una terapia o di stabilire se questa sia supportata a sufficienza da poter essere utilizzata.

Secondo la nuova sentenza, non è stata prodotta durante il procedimento nessuna “prova convincente” che il trattamento con Ivermectina abbia alcun effetto sul decorso dei pazienti Covid-19, e anzi “basandosi sulle prove disponibili, l’Ivermectina non è un trattamento efficace per Covid-19”. Il giudice aggiunge poi che “non c’è dubbio che la comunità medica e scientifica non supportano l’Ivermectina come trattamento per Covid-19”.
Nel 2021, in tempi di pandemia da Sars-CoV-2, le condizioni ideali per questo teatro dell’assurdo sono rinnovate: e così avviene per l’Ivermectina quanto descritto, non solo in Ohio, nonostante i chiari pronunciamenti di Cdc e Fda, solo se si vuol rimanere in Usa.

In un altro procedimento, per esempio, un’altra moglie ha portato in tribunale un ospedale dell’Illinois perché ha rifiutato la somministrazione dell’Ivermectina a suo marito, malato di Covid-19; la donna ha perso, ma la motivazione che ha offerto per il suo tentativo – adducendo che un pronunciamento in suo favore del giudice avrebbe potuto salvare migliaia di vite, non solo il marito – la dice lunga su come profondamente sia penetrata la convinzione che un trattamento non approvato sia in realtà disponibile e utile.

Di fatto, casi come questi abbondano: solo limitandosi all’Ivermectina, si ricordano i pronunciamenti di segno opposto – a favore della somministrazione di Ivermectina – a Rochester e Williamsville, entrambe città nello stato di New York. Vorrei far capire al lettore che, come ricercatore, trovo questo svolgersi di ingiunzioni di somministrazioni di farmaci non approvati, e di successiva revoca di tali ingiunzioni (a valle di una ventina di giorni di somministrazione) assolutamente lunare.

Si resta sgomenti, infatti, a vedere prendere decisioni che dovrebbero essere di pertinenza esclusiva delle autorità regolatorie – cioè degli organi che hanno insieme la competenza tecnica e giuridica per stabilire se la somministrazione di un certo trattamento sia efficace – da parte di singole corti o anche singoli giudici, su istanza diretta di pazienti o singoli centri ospedalieri. Alla mente tornano le numerose decisioni di giudici del lavoro che autorizzavano (e in qualche caso imponevano) il protocollo fraudolento di Vannoni nel caso Stamina, o di corti di ogni ordine e grado sulla somministrazione della somatostatina secondo il protocollo Di Bella, o gli ordini dei prefetti di distribuire il siero di Liborio Bonifacio e mille altre decisioni di autorità giuridiche e giudiziarie che, in assenza di dati consolidati (o in presenza di dati avversi, ma contestati dai diretti interessati) hanno assecondato la “volontà popolare”, salvo poi smentirsi in successivi gradi di giudizio in un mostruoso rimbalzare di decisioni che, per loro natura, non potevano certo tenere che in conto solo residuale le evidenze scientifiche disponibili.

Ancora una volta, il circuito impazzito di informazione e autopromozione di rimedi inventati su Internet, le pubblicazioni scientifiche di dati preliminari, il soffiare della politica e di diversi attori interessati su queste vicende e infine l’intervento dei tribunali, rendono impossibile un approccio fiducioso e chiaro alle poche informazioni solide che la ricerca scientifica sta faticosamente producendo; e se la terapia può essere ordinata da un tribunale, nonostante la mancanza di prove e la contrarietà dei medici, resta solo da capire quando la colpevolezza di un imputato potrà decidersi in sala operatoria.

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