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Referendum autonomia, seggi aperti dalle 7 in Veneto e Lombardia: debutta il voto elettonico, peserà l’affluenza

Ott 22, 2017

La Lega incrocia le dita sperando nell’affluenza, il Pd si divide, la sinistra attacca, il M5s traina il sì all’autonomia, dopo aver spinto per il voto elettronico in Lombardia facendone lievitare i costi. Scatta l’ora X per i referendum in Lombardia e Veneto, dove sono chiamati a votare circa 12 milioni di cittadini. Seggi aperti dalle 7 alle 23, incognita tablet per Maroni, risultati attesi entro un paio di ore. Ma occhi puntati soprattutto sull’affluenza, il dato più importante visto che si tratta di un quesito consultivo che punta a tenere a casa le tasse: quelle dei veneti al Veneto, quelle dei lombardi alla Lombardia.

· IL DOSSIER

Obbligo del 50% più uno per il governatore Luca Zaia, che ha già chiarito “la mia carica non è in discussione, il referendum non l’ho voluto io, ma il consiglio regionale”, niente quorum per Roberto Maroni, che sarà contento con il 34%, l’affluenza del voto sulla riforma del titolo V della Costituzione. Ma – come ha detto anche al New York Times – “più voti, più potere”. Solo con una significativa mobilitazione i governi regionali avranno infatti un mandato forte nell’eventuale trattativa con le istituzioni centrali per ottenere il diritto a gestire a livello regionale materie oggi di competenza statale. Trattativa che nei piani del presidente della Regione Lombardia partirà subito (martedì si va già in consiglio regionale), per concludersi prima delle prossime elezioni. “Questa campagna apre prospettive esaltanti, ne sono certo, ma un risultato l’ha già ottenuto – diceva solo ieri – far sapere a tutti che la Lombardia è davvero una Regione speciale”.

Importante l’investimento finanziario che entrambi hanno sostenuto fa capire quanto vale un successo dei “Sì” per stabilire gli equilibri nelle future coalizioni. La Regione Veneto ha investito 14 milioni di euro, più 2 milioni per l’impiego delle forze dell’ordine, mentre la Lombardia nella voting machine delle polemiche di milioni ne ha investiti 50, più i 3 chiesti dal Viminale per coprire i costi della sicurezza. In ballo ci sono però oltre 40 miliardi di residuo fiscale, la differenza tra le tasse pagate dai cittadini di una regione all’amministrazione centrale e quanto lo stato restituisce loro sul territorio. Quello del Veneto è calcolato in 15 miliardi, Maroni spera almeno in 27, la sua metà. E la competenza su 23 materie che, in base all’articolo 117 della costituzione, potranno eventualmente essere affidate alle regioni, dall’istruzione, alla tutela e sicurezza del lavoro, dalla ricerca scientifica, alla salute e all’ambiente, dal commercio estero ai rapporti con l’Ue. Entrambi i presidenti leghisti vogliono però anche sicurezza, immigrazione e ordine pubblico a fronte di maggiori trasferimenti da parte dello Stato, anche se si tratta di competenze esclusive dello Stato.

Un referendum dunque che servirà sostanzialmente ad aprire una fase di trattativa con Roma, che ha visto saldo l’asse Lega-Foza Italia (con l’attivismo di Matteo Salvini e l’appello al voto di Berlusconi) ma che ha fatto registrare anche frizioni all’interno del centrodestra. Clamoroso lo scontro con Giorgia Meloni di Fratelli d’Italia, colpevole di aver liquidato l’appuntamento come pura “propaganda” e aver irritato a tal punto Maroni da fargli minacciare la crisi in giunta. Il M5s è per il Sì, nonostante le critiche a Maroni per aver “personalizzato” un referendum che avrebbe dovuto essere trasversale, nel centrosinistra i partiti sono schierati per l’astensione nonostante la pattuglia di sindaci dem delle grandi città, capitanati da Giuseppe Sala (che oggi sarà a Parigi) e Giorgio Gori – sindaco di Bergamo e possibile sfidante di Maroni alla Regionali – che hanno dato vita a un comitato per il Sì “diverso, lontano dalla propaganda leghista”. Su una posizione c’è accordo, però: il referendum per l’autonomia è considerato “inutile e dispendioso”, meglio sarebbe stata una trattativa diretta col governo, come ha fatto l’Emilia Romagna.

La polemica della vigilia però è stata tutta sulla sicurezza del voto elettronico e il funzionamento della voting machine lombarda, messa alla prova con risultati non proprio lusinghieri: decide e decine le segnalazioni arrivate dai seggi, mentre i tecnici della società incaricata dalla Regione di gestire il tutto cercavano di testare e mettere a punto il sistema. “Tablet inceppati, batterie

esterne che non caricano, ciabatte non funzionanti. La prova del voto non è andata benissimo”, twittava il segretario milanese del Pd Pietro Bussolati. “C’è il rischio di opacità e gravi complicazioni”, perché gli uffici elettorali avrebbero “evidenziato che statisticamente il 4% delle macchine non funziona”. La Regione rassicura – “non ci sono rischi per la sicurezza” – e garantisce assistenza tecnica. Ora si fa sul serio.

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