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Christine Lagarde: “La crescita è ripartita ma protezionismo e instabilità rischiano di diventare un freno”

Apr 18, 2017

La crescita si è messa in moto, anche in Europa, ma sussistono incertezze politiche, inclusa quella che lei definisce la “spada di Damocle del protezionismo”, in particolare in due Paesi: prima di tutto la Francia. Qual è la posta in gioco nelle imminenti elezioni? Si tratta di scegliere tra protezionismo e apertura? E in secondo luogo c’è incertezza negli Stati Uniti: l’Amministrazione Trump è in carica da più di due mesi, lei crede che il presidente attuerà l’agenda protezionista a lungo promessa nella sua campagna elettorale?

“In qualità di capo dell’Fmi – risponde Christine Lagarde, direttore generale del Fondo Monetario Internazionale – non mi è consentito scendere in dettagli a proposito della Francia, perché sono cittadina francese. Chiaramente, però, la preoccupazione per l’esito incerto delle elezioni aumenta. In tutti i paesi che ho visitato negli ultimi due mesi è sempre trapelata molta ansia quando mi rivolgevano questa stessa domanda. Indubbiamente, la questione è di enorme importanza per il ruolo che ha la Francia, per le dimensioni dell’economia francese in rapporto a quelle di altri partner della zona euro, e perché alcune idee al centro del dibattito politico sembrano finalizzate a scompaginare l’attuale architettura dell’Unione europea, per ciò che concerne la Francia. Quanto prima svanirà tale incertezza – ma immagino che dovremo attendere il 7 maggio perché ciò accada – tanto meglio sarà per l’economia globale e, naturalmente, per l’economia della zona euro. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, si vanno evidenziando già grandi discrepanze tra la retorica usata nel periodo pre-elettorale e i provvedimenti varati nelle recenti settimane. Sono dell’opinione che, più che fare speculazioni sulla possibile interpretazione di questa o quella cosa, sia indispensabile concentrarsi sulle misure effettive, sulla determinazione politica, sulle leggi approvate. Al summit del G20, parlando con la mia controparte, il segretario del Tesoro degli Stati Uniti, ho potuto apprezzare la volontà di lavorare insieme, e di farsi un’idea precisa, non radicale, dei Paesi che cerchiamo di aiutare. Sono confortata dalla loro volontà di cooperare. Dobbiamo continuare a mostrare quali sono i vantaggi della cooperazione. Sfrutterò gli incontri di primavera della settimana prossima tra Fmi e Banca mondiale per agevolare la discussione su cosa è proficuo per la stabilità e la prosperità, e su come sia possibile promuovere una maggiore produttività per tutti. Sono ragionevolmente ottimista e credo che potremo spazzare via parte della confusione e delle incomprensioni. Quando la gente sente parlare di “libero commercio”, pensa immediatamente: “Oh, c’è il rischio del protezionismo!”. Quando io sento parlare di commercio libero, equo e globale, invece, penso istintivamente: “Bene, questa è una proposta positiva”. Quindi, dietro al concetto di “equo” c’è ciò di cui dobbiamo discutere, ciò che dobbiamo definire tutti insieme, sedendoci a uno stesso tavolo, ed è quello che faremo nel meeting di primavera”.

Lei ha parlato della necessità di diminuire gli squilibri eccessivi con l’estero e noi tutti pensiamo subito alla Germania, ovviamente. Pensa che Berlino dovrebbe fare di più e investire di più nelle infrastrutture, per sé e per l’Europa tutta?

“In sintesi, la risposta è “sì”. I Paesi che hanno squilibri eccessivi dovrebbero trovare modalità atte a ridurli, tenendo in considerazione le particolarità delle loro economie, naturalmente. La Germania, con la sua popolazione sempre più anziana, dovrebbe avere – e potrebbe legittimamente aspirare ad avere – un certo surplus, ma non nella misura che vediamo al momento: un 4 per cento sarebbe giustificato, forse, ma non l’8 per cento. La buona notizia è che la Germania ha già iniziato a investire – anche finanziando i rifugiati – e ha incominciato a investire nelle infrastrutture. Certo, si tratta di un processo lento, però, che noi raccomandiamo di accelerare, investendo, per esempio, ancora di più nella banda larga. C’è anche da tenere presente che la Germania è uno dei pochi paesi a essersi impegnato finanziariamente a destinare allo sviluppo globale lo 0,7 per cento del suo Pil”.

Trump ha ragione a criticare il surplus commerciale della Germania? I “cattivi” di turno stanno dicendo cose “giuste”?

“Io mi asterrei dall’usare definizioni come “cattivi”: si tratta di un giudizio morale al quale non si deve concedere spazio nel tipo di lavoro che svolgiamo. Quando ci sono squilibri eccessivi, quando c’è una diseguaglianza eccessiva, o c’è instabilità nel sistema finanziario, tutte queste tre cose nuocciono alla stabilità o alla sostenibilità della crescita. Non posso non dirlo”.

L’economia mondiale fa fatica ad abbandonare quella che lei ha soprannominato “la nuova mediocrità”. Secondo lei Trump e il suo pacchetto di stimoli hanno cambiato tutto?

“Come dicono gli economisti, le aspettative contano. E contano molto. Chiaramente, in previsione di uno stimolo fiscale in Usa e di un’attesa riforma tributaria, c’è stato ottimismo, e alcuni “spiriti animali” si sono scatenati. Le aspettative di una crescita migliore sono chiaramente visibili nelle valutazioni di mercato. I prezzi degli asset sono al loro massimo storico da otto anni a questa parte, più o meno. Tutto ciò significa una cosa sola: aspettative. Resterà da vedere quante di queste aspettative saranno effettivamente concretizzate, quando lo saranno, e come questo avrà ricadute positive sull’economia reale, e che cosa ciò contribuirà a far precipitare. Ma se in conseguenza di questa ondata di ottimismo e di investimenti del settore privato assistessimo a un miglioramento e a un aumento dei finanziamenti per la ricerca e lo sviluppo del settore privato, sarà un bene per l’economia reale”.

Lei ha appena detto chiaramente che l’Fmi non ha preso alcuna decisione definitiva sulla Grecia. Pensa che siano stati fatti progressi nel riconciliare le due opinioni – quella europea e quella del Fmi – in merito al surplus fiscale a lungo termine?

“Bisogna tenere conto di due fattori. Il primo è il breve periodo, che rientra nel programma del Meccanismo europeo di stabilità (Esm), e farebbe parte anche del nostro programma, se dovessimo averne uno. Il secondo è lo sviluppo fiscale sul lungo periodo, la strada da percorrere in futuro, che determinerà l’analisi di sostenibilità del debito. In entrambe queste aree, dobbiamo convergere il più possibile su un’unica posizione. Chiaramente, però, qualsiasi cosa l’Fmi decida di finanziare – se aderissimo – sarebbe sulla base sia della strada fiscale da percorrere sia sulla nostra analisi di sostenibilità del debito. Sul lungo periodo, noi crediamo che un disavanzo primario dell’1,5 per cento sia ragionevole. Se gli europei decideranno in maniera diversa, allora dovremo tenerne conto. In ogni caso, però, non possiamo adottare previsioni irragionevoli o costruire quadri macroeconomici ingiustificabili”.

La situazione della Spagna è in miglioramento, ma i fondamentali restano più o meno gli stessi. Che cosa dovrebbe fare la Spagna per dotarsi di sufficienti ammortizzatori politici in vista di una crisi futura?

“Vorrei premettere a qualsiasi mio commento un forte e sentito omaggio al popolo spagnolo e alla resilienza della Spagna che hanno consentito di varare riforme solide e serie. Non è un miracolo dunque se le cifre sono migliorate, e se l’economia è arrivata a un punto di svolta, se la disoccupazione – così alta all’inizio – adesso sta calando. Spero che tutto ciò continui. In particolare, noi crediamo che il dualismo del mercato del lavoro (da una parte i dipendenti più esposti a breve termine, dall’altra i lavoratori con contratti indeterminati e più protetti a lungo termine) non favorisca la risoluzione della situazione della disoccupazione in Spagna. Ne consegue che è indispensabile porre rimedio a quel dualismo. Uno degli aspetti determinanti della ripresa in Spagna è stata la determinazione con la quale sono state varate le riforme. Per esempio, la determinazione con la quale sono stati affrontati e risolti l’instabilità del settore bancario e i prestiti non performanti. Si è arrivati a questo risultato con una cooperazione a tutto campo. L’Esm è intervenuto con i finanziamenti. La Commissione europea e il Fmi sono stati sempre presenti per monitorare la situazione e dare una mano. E questa cooperazione ha portato ottimi frutti”.

Lei afferma che il Regno Unito, che fa ancora parte a tutti gli effetti dell’Unione europea, è ancora in crescita. Pensa che la Brexit costituirà una battuta d’arresto per il Regno Unito?

“Come sa, avevamo anticipato una crescita di gran lunga inferiore rispetto a quella che il Regno Unito ha dimostrato negli ultimi trimestri. In verità, però, ora stiamo iniziando ad assistere all’inizio dell’impatto della Brexit – in termini di redditi disponibili e di svalutazione della valuta e così via. Quanto più si parla di trasferimento di aziende o di istituzioni finanziarie a Francoforte, a Dublino o a Parigi, tanta più ci sarà incertezza in un Paese la cui capitale ha un ruolo così fondamentale come centro finanziario”.

Secondo lei la zona euro, così come è adesso, sarebbe in grado di sostenere una nuova crisi finanziaria o bancaria? Oppure sarebbero indispensabili altri riforme?

“La zona euro indubbiamente sta molto meglio oggi di quanto stesse nel 2008: adesso ha un Meccanismo europeo di stabilità, ha rafforzato le sue strutture di vigilanza, ha una regolamentazione comune migliore del settore bancario e così via. Ma fino a quando non avrà un Patto di stabilità e crescita chiaro, efficiente e rispettato, più di come avviene oggi; fino a quando non avrà politiche fiscali uniche e comuni; fino a quando un giorno non avrà la capacità di migliorare e gestire il debito sulla base dell’euro; fino a quando non avrà un unico ministro delle Finanze – come Jean-Claude Trichet sollecitava già cinque anni fa, quando ha lasciato la poltrona di capo della Banca centrale europea – e fino a quando non avrà portato a termine l’unificazione bancaria, non possiamo affermare che la missione è compiuta”.

Che cosa intende con “migliorare e gestire il debito sulla base dell’euro”?

“Mi permetta di chiarire: non sto parlando di eurobond, perché si tratta di un argomento scottante. Lascio che siano il presidente Juncker e i capi di stato e di governo dei Paesi europei a decidere come intenderanno procedere a tale riguardo. Sul tavolo ci sono molte proposte. Ho sentito molti miei ex colleghi affermare che una volta raggiunto un buon livello di convergenza, una volta fatta entrare in vigore una regolamentazione comune, il passo successivo potrebbe essere quello”.

Pensa che nelle elezioni per la presidenza francese sia in gioco anche il destino dell’euro?

“Evidentemente è uno dei punti in discussione. Ed è un punto che in verità ha il suo peso sulla fiducia e sulla stabilità della zona euro, perché se uno dei partner più grandi si chiede se il suo futuro e il suo destino siano dentro o fuori dal gruppo, per tutti gli altri si apre un grosso interrogativo”.

Jeroen Dijsselbloem, il presidente dell’eurogruppo, ha fatto arrabbiare spagnoli, italiani e portoghesi affermando che “non si possono spendere tutti i soldi in donne e alcol e poi chiedere aiuto”. Che cosa pensa di queste parole?

“Non mi piacciono. Ignoro il contesto, ma non mi piacciono”.

Christine Lagarde: "La crescita è ripartita ma protezionismo e instabilità rischiano di diventare un freno"

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*Questa intervista di Jean-Jacques Mével (Le Figaro), Claudi Pérez (El País), Dominique Berns (Le Soir) è stata realizzata grazie a Lena (Leading European Newspaper Alliance), l’alleanza editoriale di cui Repubblica fa parte insieme a Die Welt, El País, Le Figaro, Le Soir, Tages Anzeiger e Tribune de Genève.

(Traduzione di Anna Bissanti)

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