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Breve storia dell’Alieno, da La Cosa a La Cosa

Dic 17, 2017

Breve storia dell’Alieno, da La Cosa a La Cosa

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Nota del curatore: se è vero che noi umani siamo le storie che ci raccontiamo, allora dev’essere vero che siamo un interminabile sguardo verso l’Altro. E niente rappresenta meglio l’alterità di un essere che non è nemmeno di questo mondo.

L’alieno viene da lontano, da oltre la frontiera, al di là del mare e delle montagne. Porta con sé un carico di ignoto, una paura che scatta sempre. L’alieno è il Mostro perfetto; messo a nudo dall’Archivista, si rivela malvagio, crudele, sanguinario, eppure perfetto per mostrare l’infinità capacità dell’Umano. Non tutti gli alieni sono così, ma prima di vederne alcuni teneri e coccolosi come ET ci sarebbe voluti del tempo.

Non appena abbiamo saputo dell’esistenza di altri mondi abbiamo spostato lì l’origine dell’alieno, e in questo la fantascienza forse ha un po’ aiutato a migliorare i rapporti tra esseri umani. Allontanandolo lo abbiamo reso più potente, ed ecco che il Mostro è preso nuove forme, nuovi poteri, e soprattutto è diventato un volano si simbolismi mai visti prima.

La scienza ci ha portato la consapevolezza di altri mondi, la fantascienza ci ha fatto nascere dei Mostri, e loro vengono sulla Terra a ricordarci chi siamo.

Valerio Porcu

Archivi Acronali Puntata Zero

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copertina archivi acronali

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Fragili umani dalle armi inefficaci

Chi ha avuto modo di assistere al recente Alien: Covenant di Ridley Scott (2017), si sarà sganasciato nel vedere all’opera la più sgangherata banda di soldati-pasticcioni di cui si abbia memoria dai tempi del fumetto Beetle Bailey. Anche se investiti del più vitale e delicato incarico – proteggere dalle insidie di un ecosistema xenobiologico una spedizione coloniale – questi sconsiderati marmittoni paiono un branco di turisti ubriachi smarriti nel duty free shop dell’aeroporto, inciampano nelle proprie stringhe a ogni passo e chiamano la mamma al minimo imprevisto.

Al loro confronto i pur maldestri e male armati Marines di Aliens – scontro finale(James Cameron, 1986) sembrano quasi i Trecento di Frank Miller, il che è tutto dire… Ma in realtà non si tratta semplicemente di un mero fattore umano. Di fatto, l’inefficacia di ciò che da sempre costituisce il vanto della creatività umana, vale a dire le armi più sofisticate, è un tratto che unisce gran parte della produzione cinefantastica del Novecento (e oltre).

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Vada per i marziani di Wells, che sono ragazzi cervelluti, ma… Come fa il Godzilla di Ishiro Honda (1954) a resistere ai colpi di cannone? Come è possibile che gli animali del pianeta Pandora (Avatar, 2009) ab­bia­no una “corazza troppo spessa” per pallottole che potreb­bero sbriciolare il cemento armato? Come fanno comuni creature terrestri, per quanto ingigantite, quali La mantide omicida (Nathan Juran, 1957) o la Tarantula di Jack Arnold (1955) a resistere agli assalti esplosivi del più potente esercito del pianeta? Non sono fatte anch’esse di morbido tessuto vivente?

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È chiaro che l’indifesa fragilità degli esseri umani – che si rivela proprio là dove essi si credono invulnerabili – è il fattore trainante di queste narrazioni, ciò a cui ogni sceneggiatore deve ricorrere per non ridurre la lotta contro il mostro di turno a un rapido e laconico tiro al piccione. La sola arma che può fermare l’abominio alieno-radioattivo-preistorico deve essere recondita, insospettabile, prodotta da un caso fortuito, da un’astu­zia della ragione o dallo sviluppo di una micro-rivo­luzione scientifica. È un meccanismo classico, stereotipato, che però sembra anche toccare un nervo scoperto dell’immaginario collettivo, rispondere a domande che si muovono nella coda dell’occhio della nostra coscienza.

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