GLI OCCUPATI a tempo indeterminato crescono dello 0,3% da maggio a luglio (su febbraio-aprile), quelli a termine dieci volte tanto (+3,1%). I lavoratori autonomi scendono (-68 mila in un mese). Le imprese che dovevano stabilizzare i precari lo hanno già fatto, sfruttando il bonus. E tutta l’operazione sgravi-assunzioni peserà sulle casse pubbliche per circa 17 miliardi nell’arco di sette anni complessivi, considerando quelli che i tecnici chiamano i trascinamenti.
FINE BONUS. Le aziende ora sono alla finestra, in attesa di capire dove tira il vento dell’economia. Preferendo nel frattempo contratti a breve o a brevissimo (vedi il boom inarrestabile dei voucher). Ecco perché il governo è ormai pronto a fermare gli incentivi. Un cambio di strategia. “Che senso ha dare altro metadone di fronte agli ultimi dati sull’occupazione?”, è la domanda ricorrente tra Palazzo Chigi e ministero dell’Economia. Si pensava di proseguire nel décalage (sconti di anno in anno ridotti), ma la realtà si sta imponendo. E chiama un ripensamento. Così il governo punta su un’altra carta: quella della produttività, ferma da oltre un ventennio, la grande malattia del nostro sistema. Strategia in due tempi. Prima, nella prossima legge di bilancio, agendo sulla leva fiscale, ampliando la detassazione sui premi aziendali di risultato. Poi forzando sulla riforma della contrattazione, se sindacati e Confindustria non chiudono la trattativa. Un intervento previsto al massimo per gennaio, terminata in Parlamento la sessione di bilancio. Senza però toccare né il contratto nazionale né quello territoriale. Ma operando solo a livello aziendale, laddove le risorse pubbliche sarebbero quasi un miliardo l’anno .
PREMI PRODUTTIVITA’. Priva di bonus e pure del taglio strutturale del costo del lavoro – promesso per il 2018 e al momento anche questo accantonato o meglio considerato non anticipabile – la politica economica del governo dunque sterza sul buco nero degli investimenti, tracollati di un quarto nella grande crisi. E nello stesso tempo decide di dare un segnale al ceto medio, diverso dagli 80 euro. A Palazzo Chigi non girano cifre che ne certifichino il successo, ma lo sgravio sul premio di produttività reintrodotto quest’anno viene considerato una leva potente. E la decisione di rafforzarlo nel triennio 2017-19 – portando da 2.500 a 3.500 euro la soglia di reddito tassato al 10% e da 50 a 70 mila i redditi coinvolti, dunque anche una parte dei dirigenti – viene considerata una scelta tutta politica. A un costo extra (da sommare al mezzo miliardo stanziato sin qui) accettabile: 137 milioni il primo anno, 309 nel secondo, 301 nel terzo. Ha funzionato, ne è convinto l’esecutivo, fino a produrre effetti anche sulle relazioni industriali a tutti i livelli, compreso il decentrato. Doppiamente utile.
NUOVO CONTRATTO. La contrattazione è materia delle parti sociali, ma fino a un certo punto. Perché c’è un miliardo di euro circa di denaro pubblico che serve a incentivare gli accordi aziendali. Dunque – è il ragionamento del governo – o le parti disegnano un nuovo modello contrattuale coerente con questa impostazione oppure sarà l’esecutivo a intervenire. Certo, l’accordo di luglio tra sindacati e Confindustria per rendere detassabili i premi di produttività, fissati nelle piccole imprese senza un negoziato, va esattamente in questa direzione. L’obiettivo è quindi depotenziare nei fatti il contratto nazionale spostando i benefici sul contratto in azienda. Il vantaggio sarà sia per le imprese che per i lavoratori: le prime pagheranno meno tasse, i secondi avranno più soldi in busta paga. Ma il governo non esclude di agire anche su altri due capitoli: rendere possibile la derogabilità del contratto nazionale (come già prevede la legge Sacconi del 2011), sperimentare forme di partecipazione dei lavoratori alla governance dell’impresa.
SGRAVI PER IL SUD. Lo shock da stop al metadone del Jobs act non sarà comunque privo di scialuppe di salvataggio. Specie nelle aree di crisi. Il governo pensa a soluzioni ponte per i 30 mila lavoratori che rischiamo di restare senza ammortizzatori sociali: un mix tra politiche passive (sussidi) e attive (ricollocazione). Ma anche a un piano tampone per il Sud, confermando lì solo gli sgravi legati alle assunzioni per le categorie deboli (giovani, donne, disabili) e finanziati con i fondi europei. Una soluzione molto cara ai sindacati (soprattutto Cisl e Uil) e pure a Confindustria. Ci sono 8,5 miliardi nei Poc, i piani operativi complementari: una sorta di tesoretto locale che custodisce i risparmi del cofinanziamento di Campania, Sicilia, Calabria, Puglia e Basilicata. Si può poi attingere anche al Fondo sviluppo e coesione (lì giacciono 40 miliardi, compresi gli interventi antisismici e per infrastrutture). Il modello può essere il Patto per il Sud firmato dal premier Matteo Renzi e il governatore Vincenzo De Luca, laddove la Campania ha deciso già per quest’anno di coprire il 60% che manca agli sgravi contributivi (e arrivare così al 100%) con il suo Por, ovvero fondi europei.