ARQUATA – “Ma domani è già domenica? Mi sembra passata una vita. Lo sa? Domenica scorsa avevo a pranzo i miei figli che abitano a Roma. Per questo, dopo la messa, sono tornata subito a casa per mettermi in cucina. Ho saltato il caffè e i biscotti con le amiche al bar”. La signora Anna è appena uscita dalla tendopoli. Per lei e per tutti la notte di mercoledì ha segnato un confine, ha creato una frattura fra passato e presente. E questa domenica che arriva, il giorno della festa, rende ancor più amaro il confronto con i ricordi. “Avevo preparato le fettuccine con i funghi porcini. Se ne trovano già, sulle nostre montagne”.
Venticinque tende, ciascuna con otto brandine. La tendopoli è a attaccata ad Arquata ma tutti qui ti spiegano che questo è Borgo e non Arquata, come se il capoluogo del Comune fosse all’estero. Si prepara una domenica che per fortuna non è stata mai vissuta dai nonni e dai nonni dei nonni. E’ la prima volta – dal 1700 in poi – che Arquata viene sconvolta dal sisma. “Io non ho ancora capito bene – dice la signora Bruna – perché mi trovo qui. Lo so, il terremoto ha fatto delle grandi crepe nella mia casa e mi sono buttata fuori al buio. Mi hanno portato al campo da calcio, dove adesso ci sono le nostre nuove case di tela. Ma è successo tutto così in fretta che non riesco a crederci”. “Alla notte non faccio altro che pensare. Cosa succederà adesso? Quanti giorni o quanti mesi resteremo qui? Poi mi accorgo che anche le altre donne della tenda non dormono, e ci mettiamo a parlare fra noi. Ci conosciamo tutte. Io sono di Pretare, le altre dei borghi qui intorno. Ci si incontrava sempre, dal medico o a fare la spesa. C’è un freddo pesante, nelle nostre notti montanare. Ma quelli della Protezione mi hanno dato un piumino, e sto abbastanza bene”.
La domenica era un bel giorno, su queste montagne. Arrivavano i più giovani che lavorano a Roma o a Pescara e si trovavano con chi è riuscito a rimanere. Un caffè al bar e poi in tanti a messa. I campanili della vallata suonavano uno dopo l’altro, per annunciare l’arrivo del parroco. “Fino a domenica scorsa – racconta don Francesco Armandi, 72 anni – celebravo cinque messe, perché sono parroco a Piedilama, Capodacqua, Tufo, Pretare – dove tutte le chiese sono rotte – e a Pescara del Tronto, dove non esistono più né la chiesa né purtroppo tutto il paese. Domani celebrerò la messa in due tendopoli, ma non qui ad Arquata perché alle 10 arriva il vescovo, Giovanni d’Ercole, e sarà lui a celebrare la messa. Queste sono ore davvero terribili. Oggi ho aspettato e benedetto quindici bare arrivate a Pescara del Tronto dopo i funerali di Ascoli. Quindici bare e ancora non è finita. E anche il cimitero è lesionato, si vedono feretri nelle tombe spaccate. Sto pensando a cosa potrò dire nelle omelie di domani. Non sarà facile. Qualsiasi parola sarà inadeguata. Stasera leggerò alcuni testi di papa Francesco. Lui dice spesso ‘preghiamo tutti assieme, in silenzio’. Sì, di fronte a questa immane tragedia, il silenzio forse è la cosa più dignitosa”.
Mancheranno a tanti, le chiese della vallata. “Siamo pochi e ci conosciamo tutti. Posso dire che il 60% dei parrocchiani viene a messa, mentre in certe città non arriva al 6%. Per fede ma anche per tradizione, e anche perché le chiese sono – erano – bellissime. Quella di Pescara del Tronto è stata costruita dai Templari mille anni fa, ha una croce del 1200. A Capodacqua è ottogonale, del 1500, completamente affrescata”.
A fianco della tendopoli è al lavoro il “Gruppo comunale di volontariato di Protezione civile di Arquata del Tronto”. Non è come le altre volte, quando parti per dare un aiuto e poi torni a casa contento di avere fatto del bene. Qui si aiutano persone che si conoscono da sempre (consegna medicine e pasti, accoglienza di volontari arrivati da lontano) poi si va a dormire in tendopoli, perché tutti sono sfollati come gli altri. Ti togli il giubbotto con scritto Volontario e torni a essere una persona che ha bisogno di aiuto. Attorno a un tavolo stanno organizzandosi Luigi, disoccupato; Eleonora che studia medicina; Francesca che fa scienze politiche, Claudia, contabile che lavorava ad Amatrice in uno studio che non c’è più, Stefano che fa il fornaio ma il forno è tutto spaccato. Parlano del futuro, si chiedono se ci sarà, questo futuro. Hanno paura che quando si spegneranno i riflettori nessuno si ricorderà di loro. Parlano con commozione di un amico più grande, Rodolfo, volontario “da sempre” sulle ambulanze, che è appena tornato da Amatrice dove stanno ancora cercando suo figlio, morto assieme alla moglie e ai loro due bambini.
Nel pranzo della domenica non ci saranno lasagne, cinghiale o tartufo che appaiono da sempre sui tavoli della vallata. Ma nella mensa della cucina mobile Mattei di Fano, dicono tutti, “si mangia bene”. “Dobbiamo cucinare però con quello che abbiamo a disposizione”, quasi si scusa Saverio Olivi, arrivato assieme a 18 volontari per preparare 350 pranzi e altrettante cene. “Per primo pasta con carne e piselli, per secondo un piatto freddo, tonno e fagioli, con pomodoro. Ma a cena, quando ci sarà più freddo, metteremo in tavola amatriciana, spezzatino con piselli, insalata”.
C’era anche la partita, la domenica pomeriggio. “Categoria esordienti calcio a 9, e quest’anno siamo passati a 11. Ma sul nostro campo, bellissimo e invidiato da mezza valle, adesso ci sono la tendopoli e il campo base dei pompieri”.
Scende la sera. Alle 19 la cucina mobile comincia a servire pasta al ragù e arista di maiale. Nel campo giochi dei bambini, l’unico pezzo di terra piana non occupato dai mezzi di soccorso, per tutto il giorno non si vedono bambini. C’è un “castello” con scivoli e lassù – proprio sulla torretta di plastica – si stringono l’uno all’altro una decina di ragazzi, età da scuole medie e superiori. Hanno scelto un castello finto. Per difendersi da paure vere.