• 25 Aprile 2024 6:15

Corriere NET

Succede nel Mondo, accade qui!

Il pallone da umiliare

Apr 11, 2020

Riaprono librerie, negozi, fabbriche, officine, studi professionali. Il calcio no. Lo sport no. Non si gioca, e nessuno pretendeva di farlo. Ma non ci si allena neanche. Si potrà lavorare in un negozio che vende animali, in una profumeria, o piuttosto in una miniera di carbone e in una fabbrica di tessuti. Ma non si potrà correre all’aperto in un campo di 110 per 70. Neanche con un protocollo sanitario e il preventivo impiego di test sierologici e tamponi, in un ambiente protetto, a gruppi di pochi, con spogliatoi separati. Non si può.

Il patrimonio delle macchine industriali merita tutela. Quello degli atleti no. Perché? Perché un operaio può rischiare la pelle per millecinquecento euro al mese e uno strapagato calciatore no? La risposta è politica. Come la decisione. Perché è chiaro anche a un bambino che non c’è niente di scientifico in questa esclusione. Allora i casi sono due. Se la decisione l’hanno presa gli scienziati, e l’hanno poi imposta al governo, vuol dire che l’emergenza sanitaria ha fatto strame, insieme con la salute pubblica, di quel ramo specialistico delle professioni intellettuali che è la competenza politica. Senza la quale una democrazia soccombe al sapere dei tecnici tutte le volte in cui è costretta a chiamarli a Palazzo. Per manifesto complesso di inferiorità. Se invece la decisione l’hanno presa i politici, come sembra lasciar intendere il protagonismo del ministro dello Sport – che se la intesta con una lettera ai media mentre il suo premier parla in tv agli italiani -, allora è legittimo chiedersi qual è il suo significato.

Spadafora lo ha fatto intendere in un mese di esternazioni, alle quali non è estranea l’ideologia del movimento a cui appartiene: la «fase due» per il ministro grillino è una palingenesi civile, all’insegna di una frugalità che coincide con un’umiliazione collettiva. Perché, in fondo in fondo, il virus è la giusta punizione per un capitalismo senza cuore, che stupra la natura del pianeta e ci condanna ai miti di un consumismo sfrenato, di cui il calcio, con i suoi ingaggi stellari e i suoi debiti azzardati, è il primo imputato.

Nei primi giorni della pandemia, Spadafora lo aveva scritto in una delle sue note moraliste a cui ci ha abituato: «Prenderò ogni iniziativa utile per mettere ordine in un mondo che rischia di non rappresentare più i valori etici ai quali vorremmo che si ispirasse». Lo ha fatto ieri, adoperandosi con tutte le sue energie per decretare quel «fermo un giro» che, nelle strette condizioni temporali dall’agenda calcistica, può voler dire far saltare il campionato. Per la gioia di alcuni presidenti e dirigenti dei club che, o perché candidati alla retrocessione, o perché hanno visto sfumare l’illusione dello scudetto, o perché vicini al crac finanziario, sperano di riavvolgere all’indietro il nastro della serie A. Con ogni mezzo. Che siano parole, dette e dettate alla propria sfera di influenza. O opere, pressioni e alleanze maligne che da sempre abitano nel sottobosco del Palazzo. Il primo round l’hanno vinto Spadafora e i suoi coperti sodali. Approfittando della confusione in cui versa il Paese. E della febbrile liquidità politica, in cui perfino un discorso alla nazione può sfociare in un comizio elettorale. Per ripartire, nell’economia come nella società, e nello sport, servono sintesi. Finora si vedono solo partite in proprio.

Utilizzando il sito, accetti l'utilizzo dei cookie da parte nostra. Guarda la Policy

The cookie settings on this website are set to "allow cookies" to give you the best browsing experience possible. If you continue to use this website without changing your cookie settings or you click "Accept" below then you are consenting to this.

Close