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Quando il video di una telecamera di sorveglianza diventa prova in un processo

Giu 23, 2022

AGI – La privacy? C’è, ma non si vede. La si invoca, ma non la si applica. Esiste, ma viene grandemente disattesa. Ci si appella, ma senza esito. Anche quando, probabilmente, non sarebbe il caso. Perché si rivela in sé controproducente. Per i diritti dei singoli o della collettività.

Specie quando si tratta di una materia delicata come la videosorveglianza, dalle cui risultanze si potrebbero però risolvere molti casi spinosi. Rintracciando magari i colpevoli di delitti alla persona così come al patrimonio o i responsabili di incidenti stradali.

Perché, lo si voglia o no, nella quasi totalità dei casi la videosorveglianza comunque “è una delle principali fonti di prova”. Può consentire di identificare i colpevoli, ricostruire le dinamiche dell’accaduto, rivelare targhe o produrre elementi probatori cardine. Eppure non manca chi in ogni caso si appella alle regole e alle leggi che regolano il diritto alla privacy anche quando queste impediscono di evidenziare la realtà dei fatti e affermare la loro verità. Materia controversa, la privacy, specie nell’era dei social e degli algoritmi dove la violazione è continua e si sa sempre tutto d tutti. Una sorveglianza sottotraccia e latente. 

Come comportarsi, allora, per quella video? La materia è complicata, richiede sensibilità e particolare scrupolo. Anche perché “bisogna prestare attenzione e non dare per scontato un filmato, o un’immagine, credendo che basti premere il tasto ‘play’ per saperlo interpretare”. 

E in effetti, “c’è bisogno di dare il giusto valore a elementi probatori come l’analisi di immagini e filmati ad uso investigativo e forense”, sostiene Martino Jerian, fondatore di Amped Software, il quale sottolinea anche: “Non basta premere ‘play’ e pensare di poter interpretare un fatto.

Ad esempio, un indumento scuro e con dei dettagli di diverso colore, potrebbe apparire chiaro e uniforme quando ripreso all’infrarosso da una telecamera di sorveglianza in modalità notturna. Inoltre, senza un’adeguata preparazione e gli strumenti giusti, si rischia di scambiare artefatti tecnici con dettagli reali, portando ad esempio ad un’errata identificazione di un volto o interpretazione dei caratteri di una targa.

Bisogna essere consapevoli di queste problematiche, altrimenti un innocente rischia di scontare una pena per una inaccurata interpretazione del video, o – nella migliore delle ipotesi – le indagini risultano inefficaci” conclude Jerian.

Detta in parole povere, “c’è bisogno di maggiore rigore quando si analizzano determinati fatti. Bisogna seguire un iter scientificamente validato e trattare filmati ed immagini così come viene fatto per discipline forensi più tradizionali, ad esempio il Dna, tenendo presente che è in ballo la libertà delle persone e la sicurezza delle nostre città”.

Del tema se n’è appunto discusso durante una riunione organizzata da Amped Software presso il Parlamento europeo, dove erano presenti rappresentanti di 14 Stati membri e 2 Stati extra Ue. Nel corso dell’incontro, Amped Software, che è una software house italiana che sviluppa tecnologie di elaborazione immagini e video per uso forense, investigativo, di pubblica sicurezza e intelligence in 100 paesi, ha messo in evidenza come tra le priorità vi sia l’importanza di “creare un insieme di principi generali, prendendo spunto dalle linee guida promosse da entità internazionali ed europee del calibro di Enfsi – la rete europea che rappresenta gli istituti forensi, quindi le linee guida promosse dalla comunità scientifica e forense in verità ci sono, solo che “vanno adottate su scala più vasta e messe in atto in maniera pragmatica e utile agli addetti ai lavori”. In sintesi, “sicurezza e giustizia attraverso la scienza”, anche se le linee guida promosse dalla comunità scientifica e forense esistono, solo che “vanno solo adottate su scala più vasta e messe in atto in maniera pragmatica e utile agli addetti ai lavori”, avvertono gli esperti.

La quantità di videosorveglianza disponibile aumenta di anno in anno: secondo un articolo apparso su Police1, rivista dedicata alle Forze dell’Ordine, in una cittadina americana di 110.000 abitanti la quantità di dati provenienti dalla videosorveliganza è aumentata di 125 volte in 7 anni. Dai 331 video registrati nel 2013, pari a 19,76 GB, si è passati a 34.590 video nel 2019, pari a 2.474 Gigabyte.

Certo, un esponenziale aumento del controllo, ma secondo uno studio pubblicato sull’European Journal on Criminal Policy and Research, si puó facilmente provare quanto l’utilizzo delle videocamere di sorveglianza (CCTV) fornisca elementi probatori utili. Per esempio, sono state analizzate ben 251.195 scene del crimine registrate dalla Polizia dei Trasporti Inglese lungo le linee ferroviarie tra il 2011 e il 2015.

Per tutti i casi presi in esame, nel 45% di essi erano disponibili filmati di videosorveglianza, che sono risultati utili nel 29% dei casi: quindi nel 65% dei casi in cui erano disponibili, i filmati di videosorveglianza sono risultati utili alle indagini. In media le CCTV hanno permesso di incrementare del 25% il tasso di risoluzione dei casi.

Ma non finisce qui: secondo uno studio condotto dalla University of South Wales Prifysgol De Cymru in 42 su 44 omicidi studiati, le telecamere di videosorveglianza (CCTV) sono state strumentali a identificare i colpevoli e a supportare il caso, risultando lo strumento più efficace alle indagini, al primo posto davanti alle informazioni ottenute da cellulare, DNA, e altre tecniche forensi.

Eppure in un mondo dove invocare la privacy è ormai diventato come raccontare una barzelletta, non manca chi continua ad invocarla come forma di tutela perché, come rivela una recente indagine Federprivacy-Ethos Academy, su un campione di circa 2.000 individui, è risultato che solo l’8% degli intervistati che è entrato in un esercizio pubblico dotato di un sistema di videosorveglianza afferma d’aver trovato esposto un regolare cartello di informativa che avverte in modo chiaro e trasparente la presenza di telecamere con l’indicazione dei corretti riferimenti normativi e delle informazioni complete che dovrebbero essere fornite all’interessato mentre nel 38% dei casi non c’è proprio alcun cartello che mette a conoscenza il cittadino della presenza delle telecamere. Tuttavia in molti casi la loro presenza si rivela determinante nella controversia forense.

Che fare allora? Vista la potenza e la pervasività di queste tecnologie, esse vanno trattate in maniera attenta e rigorosa, in quanto più di ogni altro tipo di fonte di prova hanno la possibilità di condizionare l’esito delle indagini e di un procedimento giudiziario. Più che una regola in sé, un accorgimento. Anche se la videosorveglianza e l’analisi delle immagini a uso giudiziario e investigativo devono poter essere in sé valorizzate.

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