ROMA – Alla fine il tavolo politico di domani tra governo e sindacati sulle pensioni, quello conclusivo della piccola stagione concertativa dell’epoca Renzi, salta e slitta. Non ci sarà alcun incontro domani a Palazzo Chigi. “Abbiamo concordato con le organizzazioni sindacali di ricalendarizzarlo all’inizio della prossima settimana, probabilmente il 27”, annuncia il ministro del Lavoro Giuliano Poletti. “Questo ci consente di fare un approfondimento ulteriore”. Ma la data sembra ancora ballerina, fa notare Palazzo Chigi. “Nulla è stato ancora fissato”. Anche perché il 27 è il giorno cruciale della nota di aggiornamento al Def, il documento di economia e finanza, a meno che il governo non decida di anticiparla di qualche ora. In quella nota ci saranno tutte le nuove cifre dell’economia italiana: il Pil rivisto al ribasso per quest’anno e il prossimo, (dalle stime ottimistiche di primavera, +1,2% e +1,4% rispettivamente), il deficit al rialzo, il debito forse stabile e non al ribasso come auspicato.
Ma perché il vertice salta? Curiose le giustificazioni. Per Palazzo Chigi il contrattempo è dovuto alle difficoltà “di uno dei leader sindacali”. No, è il governo ad avere “problemi tecnici”, trapela da fonti sindacali. In buona sostanza, non ci sarebbe ancora nulla di scritto – un piano, dei numeri, qualche proiezione – da mettere sul tavolo, come rischiesto da tutti e soprattutto dalla leader Cgil Susanna Camusso. Mancherebbe cioè la sostanza, dopo tante chiacchiere e indiscrezioni: quali soluzioni adottare per facilitare l’uscita flessibile dei lavoratori e quali misure inserire nella legge di Bilancio per sostenere le pensioni più basse. Negli ultimi tre mesi si è parlato di tutto. Fino ad arrivare alla conclusione, avallata dallo stesso governo, che le risorse a disposizione sono due miliardi (la Uil ne chiedeva due e mezzo): uno per i pensionandi (con l’Ape, il prestito pensionistico, e gli aiuti ai lavoratori precoci e impiegati in attività usuranti) e un altro miliardo per i pensionati (quattordicesima ampliata e no tax area innalzata, meno probabili 80 euro e aumento delle minime).
Eppure un’ora prima dell’annuncio dello slittamento, il ministro Poletti assicurava: “Siamo vicini a una condivisione sull’Ape”. Poco dopo la sorpresa: “C’è bisogno di completare il lavoro fatto fino ad ora, che è un buon lavoro”. Di sicuro c’è solo l’Ape, in effetti. Il prestito per andare in pensione fino a tre anni prima, finanziato dalle banche e assicurato, da restituire in rate ventennali dal raggiungimento del requisto per la quiescenza (66 anni e 7 mesi). Un’Ape super flessibile e su misura, usufruibile da tutti – compresti statali e autonomi – per anticipare anche solo un pezzetto della futura pensione. E da un costo contenuto per le casse pubbliche (sotto i 500 milioni). Non necessariamente così per i lavoratori, che potrebbero rinunciare anche a un quarto dell’assegno (se non ricadono nelle categorie protette e deboli, coperte dalle detrazioni pubbliche).