Un giornalista non deve mai usare la prima persona singolare. Qualche volta, con vero o finto pudore, la prima plurale. Questa volta, per, voglio usarla per raccontare il privilegio di diciannove anni di amicizia con la pi grande testa di questo stronzissimo Paese.
Ero sempre l’ultima ad andare via, alle feste alla Maison Labranca. Un po’ per un innato istinto di casalinga, un po’ perch dovevamo scambiarci qualche commento, buttando i bicchieri di plastica, i resti di cibo, facendo quell’ordine immacolato che un po’ assillava entrambi. Il genio di Tommaso Labranca era spesso chiuso l, in quella casa bianca e nera a piano terra in una via piccina di Pantigliate. La bassa, la nebbia, la distanza da Milano che amava e odiava, da cui si sentiva spesso respinto – e purtroppo a ragione. Una casa in cui ogni tanto radunava gli amici (quelli con cui non aveva litigato nel frattempo, beninteso) organizzando eventi tanto esclusivi quanto rigorosi. Guai a tardare. Guai a dire s e poi cambiare idea. Guai a non rispettare lo spirito, il dress code, la messa in scena. E l, per i pochi rigorosi e fortunati, Tommaso faceva vivere il suo immaginario. La serata Krill con le finestre spalancate in pieno inverno, per sperimentare la temperatura dello zooplancton polare. La cena ospedaliera con la minestra e il Bel Paese. La cena del Mirtillone della Tradizione, un budino di gelatina trasparente con immerse le luci a led dell’Ikea (ci siamo sentiti tutti malissimo). Il picnic “ricchi contro poveri”, il ciclo di serate di studio sugli anni ’80 al McDonald’s di piazza Oberdan (ovviamente una serata sola, per poi buttare tutto e dire che non era una grande idea), gli appuntamenti di notte per il Late Night Cappuccino in qualche autogrill dimenticato. La serata fucsia, per presentare quel meraviglioso poemetto intitolato Hjrta (la cosa pi bella che Tommaso abbia mai scritto, e lo sostengo con tutto il conflitto d’interesse che pu suggerire un’opera in endecasillabi sciolti “dedicata a Marta C.”). Idee, lampi, provocazioni, teorie, la ricchezza immensa delle sue parole che diventavano libri, pezzi di giornale, iniziative editoriali, trasmissioni radiofoniche, progetti in rete iniziati e poi abbandonati con fastidio – e col malessere di chi capisce che gli altri non hanno capito, e come potrebbero capire mai. Una produzione di cui difficile trovare traccia per la sua ossessione di cancellare, far sparire, nascondere alla vista di chi non aveva apprezzato e accettato.
In questo stronzissimo Paese, Tommaso Labranca oggi diventa trending topic, lui che aveva abbandonato i social network per disgusto. Diventa un titolo su tutti i giornali che non lo hanno fatto scrivere. Diventa una frase struggente degli editori che lo hanno abbandonato. Ogni anno, una domenica pomeriggio poco prima di Natale, festeggiavamo insieme alla Maison. Quando cominciava a farsi buio, e ad avvicinarsi il momento in cui ci avrebbe inesorabilmente cacciato tutti, arrivava il momento del nostro immancabile rito. Riguardare tutti insieme (due volte consecutive) il video di Last Christmas degli Wham! e trovarci ogni volta un nuovo spunto di riflessione. Festeggiare l’ingresso in scena del nostro personaggio preferito, quello che porta la legna. Urlare tutti insieme nel momento in cui George cade nella neve e quando la ragazza accarezza la spilla. Facevamo finta di prenderci sul serio e sapevamo che tutto era un modo per dirci che noi eravamo sempre noi, quelli che si trovavano sempre con lo spumante nei bicchieri di plastica in una casa di Pantigliate, mentre l’editoria e il giornalismo erano a decine di chilometri da l.
Tommaso Labranca aveva un carattere impossibile, algido, abrasivo, refrattario a qualsiasi mediazione. Superare tutto questo, per, apriva le porte a un universo creativo unico che noi della Maison abbiamo vissuto con la lucida consapevolezza che fosse un privilegio. We gave you our hearts.
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