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La necessità di un dialogo tra pubblico e scienza sui vaccini (e non solo)

Nov 24, 2021

Si rimprovera agli scienziati che espongono i dati sul funzionamento dei vaccini di non avere dubbi. Li si accusa di credere in un mondo di certezze, a fronte delle numerosissime inconsistenze, del caos, dell’irriducibile disordine del mondo reale. Li si mette alla berlina quando fanno previsioni sulla pandemia, perché non sono in grado di fare altro che approssimare quanto poi succederà, con tentativi che appaiono goffi e incerti, spacciati però sotto forma di numeri, grafici, calcoli. 

A questo punto, vorrei chiarire bene: ogni santo giorno, tutti i ricercatori sono pieni di dubbi, commettono numerosi errori, sbagliano tutto il tempo. È la natura di questi dubbi e degli errori quella a cui bisogna prestare attenzione. Il pubblico, per esempio, può avere dubbi sulla reale efficacia di un vaccino. Può cioè dubitare che esso funzioni, magari basandosi sull’esperienza riportata da altri o su quanto ha sentito dire. Si tratta di un dubbio che non può essere risolto se non scegliendo di investire fiducia in una certa fonte, invece che in un’altra; non può cioè essere direttamente affrontato, perché è un dubbio che non è fondato su una procedura di indagine specifica, ma sulle euristiche del nostro cervello. Un ricercatore, invece, può e deve dubitare dell’approssimazione con cui è stata calcolata l’efficacia di un vaccino e dei dati su cui quel calcolo si esegue. Il dubbio del pubblico è risolvibile solo conquistandone la fiducia; il dubbio del ricercatore, invece, è affrontabile riesaminando i dati, alla ricerca di bias di campionamento e di eventuali altri difetti (inclusi dati mancanti o sospetti) e conducendo nuovamente un’analisi, per migliorare, confermare o inficiare una stima di efficacia.

 

Questi due tipi di dubbio sono estremamente differenti; per tale motivo non sono affrontabili o risolvibili con gli stessi strumenti. Il pubblico ha bisogno di costruire fiducia; e questa non è il prodotto di un’analisi razionale con i fatti, ma di un’interazione sociale complessa, in cui la coerenza, il tono e la qualità della comunicazione sono il punto chiave. Viceversa, la comunità scientifica, lavorando sui dati, può affrontare i suoi dubbi in modo riproducibile e razionale; tuttavia, non può mai azzerare l’incertezza, perché la procedura che utilizza è fondata sia su assunzioni circa il funzionamento del mondo, sia su mezzi statistici. Di conseguenza, le risposte della scienza difficilmente placheranno il bisogno di rassicurazioni certe da parte del pubblico, che quindi si sentirà tradito, nel momento in cui scopre che ciò che gli era stato detto non si è verificato con precisione (ma solo con un certo intervallo di errore) nel caso di scienziati onesti, oppure (giustamente) imbrogliato, quando scopre che le certezze assolute enunciate da qualcuno, in realtà, non sono frutto di procedura e analisi scientifica, ma di intuizioni più o meno guidate dall’esperienza.

 

Questo modo diverso di intendere i dubbi circa il funzionamento, ma anche la sicurezza, dei vaccini – e quindi anche, in generale, circa il funzionamento del mondo fisico – porta a grossi fraintendimenti. I dubbi statistici degli scienziati sono vissuti dal pubblico come insicurezza, quando vengono manifestati, oppure come arroganza, quando sono nascosti; viceversa i dubbi emotivi ed euristici del pubblico sono vissuti dagli scienziati come ignoranza e incapacità di ragionamento. È necessario, semplicemente, riconoscere le cose per quel che sono. Il pubblico deve accettare a operare scelte razionali, in cui nessuna opzione disponibile arriva con certezze assolute attaccate vicine; deve cioè accettare l’idea che viviamo in un mondo probabilistico, che non tutte le probabilità sono le stesse e che si agisce cercando di stimare al meglio queste probabilità, operando poi nella certezza che, proprio perché si tratta di probabilità, le scelte erronee saranno meno frequenti, ma non assenti. Gli scienziati, a loro volta, dovrebbero smettere di pretendere che i dubbi emotivi o dovuti a euristiche – il miglior surrogato della razionalità, in assenza di allenamento cognitivo – non abbiano diritto di cittadinanza, e non meritino risposte se non stigmatizzanti.

Perché questi obiettivi siano raggiunti, tuttavia, è anche necessario recuperare capacità di dialogo: il pubblico deve smetterla di pretendere di potere esprimere ogni opinione a pari merito di qualunque altra, mentre i ricercatori e le istituzioni dovrebbero recuperare chiarezza e coerenza, oltre che pazienza comunicativa. Sono obiettivi che possono sembrare irrealistici e probabilmente hanno ragione coloro che lo pensano; ma, fra i tanti dubbi, coltiviamo ancora per un poco l’idea che sia possibile ricominciare a recuperare un dialogo razionale e liberale.

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