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Il vino italiano tiene sul mercato nonostante la crisi: i numeri sono inequivocabili

Lug 4, 2022

AGI – Il valore dell’imbottigliato e le certificazioni sono in crescita a detta dell’Annual Report 2022 di Valoritalia mentre biologico e sostenibilità guidano le scelte d’acquisto. Insomma, il vino italiano tiene e anche nel 2021 ha finito con il dar prova di grande solidità e dinamismo tramite l’imbottigliato certificato che sfiora i 10 miliardi di euro. Tant’è che, nonostante le previsioni in genere sempre pessimiste se non addirittura catastrofiche, gli anni difficili della pandemia e i mesi duri della guerra, le vendite sembra crescere in maniera sensibile e anche incoraggiante con percentuali a doppia cifra: +11% rispetto al 2020 e persino +12% rispetto all’anno precedente, il 2019.

Rispetto al 2021, a fare da locomotiva – si legge sul nuovo numero dei “Tre Bicchieri”, il settimanale economico del “Gambero Rosso” – “rimane il Nordest, con il Pinot Grigio delle Venezie e il cosiddetto “Sistema Prosecco” che hanno messo a segno biennio 2020-2021 un importante +22,7%, per un totale di poco inferiore al miliardo di bottiglie. Ma di tutto rilievo anche le impennate di altre denominazioni, come Brunello di Montalcino (+40%), Barolo (+27%), Gavi (+23%), Franciacorta (+12%), Chianti Classico (+11%), Nobile di Montepulciano (+10%)”.

E se Doc e Docg sono cresciute del 16%, “a perdere terreno sono le Igt, con un arretramento del 5%”, cosicché “tra le tipologie, nel biennio 2020-2021, il mercato ha privilegiato soprattutto gli spumanti bianchi, che hanno ottenuto una progressione del 26%, seguiti dai vini passiti (+15%), dai bianchi (+7%) e, infine, dai rossi (+3%)”.

In questo quadro, particolarmente incoraggiante, emerge però anche un punto di criticità. Ed è quello delle troppe denominazioni e del valore molto concentrato solo su alcune di esse, ciò che fa sì che le prime 50 denominazioni coprono il 95% del valore economico complessivo mentre le ultime 100 appena lo 0,47%, secondo le stime di alcuni accreditati analisti del settore.

Questo sta a significare che solo poche decine di denominazioni hanno un ruolo da protagonisti, mentre un centinaio sono solo spettatori. E ciò dovrebbe suggerire di riconsiderare le regole di base del sistema, apportando quelle correzioni che oggi appaiono sempre più necessarie. Così, alla fin fine, il fatto è che – secondo  il presidente uscente di Federdoc Riccardo Ricci Curbastro, che nel 2009 è stato anche il primo presidente di Valoritalia – “526 denominazione sono troppe” mentre ad esempio ““si potrebbe pensare a delle sottozone per favorire una soluzione di aggregazione, senza dover rinunciare al proprio nome in etichetta”, ha suggerito ancora Corbastro nel corso della presentazione del Report 2022 di Valoritalia .

Ma se ormai si dà per acquisito il valore aggiunto rappresentato dalla certificazione, “c’è un ambito che da qualche anno rappresenta una nuova frontiera ed è quello della sostenibilità. In un momento in cui questo termine è utilizzato come sinonimo di tante, troppe cose, la certificazione rappresenta una garanzia di qualità oltre che un argine al cosiddetto greenwashing”, osserva il settimanale Tre Bicchieri.

Cio significa che la certificazione dei vini bio e sostenibili è attestata come fattore di superiorità e potenzialità di mercato anche nella survey Nomisma Wine Monitor, condotta su un campione di 1000 consumatori italiani e altrettanti tedeschi. Secondo il sondaggio, sia in Italia sia in Germania (secondo mercato di destinazione per i vini italiani, con un valore di 1,1 miliardi di euro), a indirizzare le scelte dei consumatori sono elementi come la notorietà del brand, il marchio biologico e la certificazione di sostenibilità, con una spiccata sensibilità nei confronti di metodi di produzione rispettosi delle risorse ambientali, origine e tracciabilità della filiera.

Da ultimo, non mancano, in Germania come in Italia, i consumatori più sensibili, che puntano i riflettori sulla responsabilità sociale ed economica dell’azienda. Messaggio che il mondo produttivo italiano sembra aver ben compreso e colto in quanto “determina da tempo le strategie delle imprese, sia in termini di produzione che di comunicazione e marketing”, si legge sul settimanale economico enogastronomico.

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