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Il sopravvissuto di RIgopiano: “Sono uscito un istante e ho visto l’inferno, mi chiamano eroe ma ho paura del buio”

Feb 12, 2017

PENNE. “Mi chiamano eroe, ma gli eroi non hanno paura del buio”. Neanche lui aveva paura del buio, prima. Prima di quel mercoledì 18 gennaio, prima della valanga, prima quando sua sorella era viva e lavoravano insieme all’Hotel Rigopiano. “Non riesco più a stare nei luoghi bui, devo dormire con la luce accesa. A ventisei anni…mi credete?”.

E come non credergli. Fabio Salzetta è uno dei due uomini che l'”assassina silenziosa”, come la chiama lui, non ha toccato. Per un miracolo, per una manciata di secondi e di centimetri. Ma il suo ruolo, in questa storia, va molto oltre quello del sopravvissuto. Quando i finanzieri con gli sci all’alba del giovedì sono arrivati a salvarlo, lui ha voluto rimanere lì. Era l’unico a sapere dove si trovavano le persone un istante prima della slavina, è rimasto lassù per cinque giorni. A indicare punti nella neve, a urlare nel nulla il nome di sua sorella Linda.

Adesso Fabio è qui. Seduto al tavolino del bar di Penne. A fianco, i ragazzi del paese fanno la formazione del fantacalcio. “Ciao Fa’, come stai?”. Lui fissa il suo decaffeinato, come se in quella tazzina rivedesse la fine del suo mondo. Lunghe pause e frasi brevi. Specialmente quando racconta lo strano clima che c’era nel resort la mattina del 18, prima della valanga. “Eravamo tutti agitati, volevamo andarcene”.

Forse una precognizione?

“Era l’effetto del terremoto. Quattro scosse forti. Avevano diffuso il panico infatti gli ospiti si erano messi nelle stanze con i tetti in legno. Volevamo scappare, ma la strada era completamente bloccata dalla neve. Dalle 8 del mattino mi ero messo a spalare nel parcheggio dietro l’hotel, così gli ospiti con i bagagli già fatti erano riusciti a incolonnarsi con le macchine sul vialetto. Erano pronti. Me la ricordo bene quella fila di auto, le facce nervose…”.

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E lei?

“Io continuavo a spalare perché sapevo che a un certo punto sarebbe arrivato lo spazzaneve”.

Come mai era sicuro che sarebbe arrivato?

“Roberto, il proprietario dell’hotel, diceva a tutti che era previsto tra le tre e le cinque. Nei giorni precedenti era andata sempre così”.

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Invece non è mai arrivato.

“No. Alle due sono rientrato in hotel per mangiare qualcosa. Un’ora dopo i clienti hanno cominciato a riportare dentro i bagagli: si erano rassegnati a stare un giorno in più nel resort. Non potevano sapere che sarebbe diventata la loro tomba”.

Cosa vi diceva il direttore?

“Di far stare calmi gli ospiti. Che però era impossibile. Anche perché noi eravamo più nervosi di loro. Gabriele D’Angelo, il cameriere, aveva finito il turno e lì dentro non ci voleva rimanere, come se sentisse qualcosa. Ha chiesto ad Alessandro Giancaterino, un mio collega, di chiamare la prefettura”.

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Poi?

“Poi non ricordo bene le ultime ore. Ricordo solo la valanga”.

Dove si trovava?

“Ero andato a prendere il pellet per ricaricare la caldaia. Il pellet mi ha salvato la vita. Io, Giancaterino, D’Angelo e Faye Dame il senegalese stavamo portando i sacchi da qui a qui”, dice disegnando sulla tovaglietta di carta del bar la pianta dell’albergo e le posizioni in cui erano. “E’ stato un attimo. Ho messo tutti e due i piedi dentro il locale caldaia, ed è arrivata”.

I suoi colleghi?

“Completamente sommersi. Non li ho nemmeno sentiti gridare. Sono i primi che abbiamo ritrovato, morti. Nella stessa posizione in cui erano quando è arrivata”.

Cosa si ricorda?

“Che è stata silenziosa”.

Silenziosa?

“Sì. Nessun boato, nessuno spostamento d’aria. Un fruscio forte, come la neve che cade da un tetto troppo pieno. Ho sentito anche il rumore di un solaio che si incrinava, il legno che si spezzava “.

E lei?

“Ero protetto, nel locale caldaia. Che è stato investito dalla neve, ma non devastato. Mi sono accorto che era successo qualcosa solo perché si sono accese le luci di emergenza”.

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Cosa ha fatto?

“La porta non si apriva, ero ancora convinto che fosse solo caduta la neve dal tetto. Gridavo, ma nessuno rispondeva. Ho trovato un martello e ho cominciato a picchiare come un matto sulle inferriate alla finestra. Non so quanto ci ho messo, parecchio comunque. Alla fine le ho spaccate, e sono uscito aggrappandomi al tronco di un faggio che non capivo perché era lì. Poi sono salito sul tetto e l’hotel non c’era più”.

Sparito?

“Tutto bianco. Tronchi, detriti, massi di neve. Ho cominciato a muovermi in direzione di dove ricordavo fosse la hall, su una spianata di neve sporca. Poi mi sono venuti i brividi: stavo camminando sul tetto dell’hotel. Lì sotto, sotto i miei piedi, c’erano gli altri, c’era Linda, mia sorella”. Con la penna, scrive il nome “Linda”. Lo sottolinea.

Lei si è salvato trascorrendo la notte nella Bmw di Parete.

Quando l’ha incontrato?

“L’ho visto che era vicino al ruscello, sprofondato nella neve fino al petto. Sotto shock. L’ho tirato fuori e siamo andati insieme alla sua macchina nel parcheggio al lato del resort. La valanga l’aveva presa a metà, pochi centimetri e l’avrebbe rovesciata come le altre”.

Cosa vi siete detti?

“Mi ha detto di aver chiamato il 118, ma non si ricordava se avevano risposto, diceva cose confuse. In macchina abbiamo chiamato i soccorsi”.

Quelle ormai famose telefonate sottovalutate.

“Quelle. E non ho ancora capito perché non ci hanno creduto subito. Ma sono molte le cose che non ho ancora capito”.

Ad esempio?

“Perché solo adesso hanno deciso di dare in tv i bollettini sul rischio valanghe. La temperatura quella notte non era bassissima, uno due gradi sopra lo zero, mentre nei giorni precedenti era meno 10. Le valanghe si prevedono, basta comunicarlo”.

Di chi è la colpa?

“Non lo so. Ma qualcuno ce l’ha”.

Torniamo al 18 gennaio.

“Nessuno di noi due, io e Parete, voleva stare in un luogo chiuso. Entravamo in macchina solo per non rimanere congelati, ma preferivamo stare fuori”.

Perché?

“Avevamo il panico che arrivasse un’altra valanga silenziosa a ucciderci. E fuori almeno si sentivano i rumori. Abbiamo passato la notte così, ad ascoltare gli scricchiolii di quelle cazzo di assi di legno sotto la neve. Nel terrore… “.

Non avete provato a tornare all’hotel e scavare?

“Quale hotel? Forse non avete capito, non c’era più niente. Si vedeva solo un piccolo triangolino nero del tetto, che era spostato di una ventina di metri da dove era prima. A un certo punto ho provato a incamminarmi sulla provinciale per cercare aiuto, ma poi ci ho ripensato perché non volevo lasciare da solo Parete”.

Ascoltavate l’autoradio?

“Ci siamo ricordati che c’era solamente alle tre. Abbiamo messo il Gr1e abbiamo capito che ci stavano cercando. Alle cinque il giornalista ha detto che i soccorritori erano arrivati all’hotel, ma noi non li vedevamo. Quindi siamo usciti e abbiamo trovato i finanzieri con la tuta gialla e gli sci. Tra il buio e la tormenta, a un certo punto abbiamo intravisto le luci dei loro caschetti. Abbiamo urlato. Mi sembrava la fine di un incubo”.

E invece?

“L’incubo era appena cominciato. Giampiero l’hanno portato all’ospedale mentre continuava a chiamare sua moglie rimasta sotto con i figli. Ero bagnato fradicio, sono andato a casa per cambiarmi e mi sono fatto riportare lì. Mi sono accorto che infilavano le sonde nei punti sbagliati. Se c’era qualcuno ancora vivo era dall’altra parte. ‘Scavate lì’, ho detto, tra il biliardo e il bar”.

E hanno trovato i bambini. Per questo la chiamano eroe.

“Ma quale eroe? I loro genitori sono morti, ora sono soli. So che avrei voluto rivedere Linda e che invece l’abbiamo trovata lunedì, cinque giorni dopo”.

Dov’era?

“In cucina, davanti al lavabo. Lei era addetta alle camere, ma alle 15 si era offerta di aiutare in cucina. Quando è arrivata la valanga, stava lavando i piatti. È morta così”.

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