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Il 2 giugno dell’operaio Arcelor Mittal: “La festa la passo in cassintegrazione: il Covid in fabbrica colpisce 2 volte”

Giu 1, 2020

“È una festa della Repubblica che deve vedere protagonisti noi operai assieme all’intera città e a tutti i lavoratori di questo paese, perché rischiamo di pagare più di tutti la crisi dovuta all’ermergenza sanitaria”. A 44 anni Massimiliano Martucci ha cambiato il modo di porgere lo sguardo verso l’acciaieria che lo ha visto crescere. Quando ne aveva poco più di 20 ha fatto il suo ingresso nelle officine generali dell’allora Ilva, da un anno e mezzo ArcelorMittal. Ama il suo lavoro ma l’incertezza sul futuro del siderurgico gli ha tolto la serenità innanzitutto. Con Roberta, la moglie, impegnata ora in casa, in home working, per un call center che offre servizi di assistenza per Enel, ha vissuto il periodo di blocco in attesa che le cose migliorassero. Ma per lui è tornata la cassa integrazione. “Il Covid in fabbrica ha colpito due volte”

Quali sono state le conseguenze della pandemia?

“Sono di nuovo a casa da due settimane e lo sono stato anche gli scorsi mesi, se pur a fasi alterne. La sensazione è che l’ammortizzatore sociale sia utilizzato dall’azienda in modo non strettamente legato al lavoro e alla produzione, perché da noi ci sono sempre cose da fare”.


Avete avuto casi di colleghi positivi?

“Ne abbiamo avuti cinque, dopo i test sierologici e le conferme dei tamponi. Sono stato tra i primi a sottoporsi volontariamente all’esame perché il suocero di un amico collega era risultato positivo. Sono stati momenti difficili ma per fortuna l’esito è stato negativo”.

Cosa le piace di più del suo lavoro?

“Il rapporto con i compagni. Il lato umano. Anche se un tempo smontare in officina le macchine da manutenere e restituirle completamente rifatte rappresentava una grande soddisfazione”.

Cosa l’ha delusa di più della vicenda Mittal?

“Dopo gli anni di commissariamento della fabbrica eravamo pronti a rimboccarci le maniche, convinti che avremmo dovuto lavorare duro in una nuova organizzazione e con nuovi obiettivi, guidati dal più grande produttore d’acciaio al mondo. È stata solo un’illusione durata meno di un anno. Un po’ alla volta abbiamo visto andar via i tecnici che ci seguivano e abbiamo capito che così non si andava da nessuna parte”.

Come vive il conflitto tra operaio dell’acciaieria e cittadino?

“Ho cambiato il mio modo di affrontare e vedere le cose. Qualche anno fa la chiusura della fabbrica l’avrei vista come una sconfitta di noi lavoratori e della città, ora non più. Prima mi domandavo perché altrove si potessero adottare misura per produrre acciaio pulito e qui no. Ma dopo dieci anni in cui non si sono risolte le cose e, anzi, ci troviamo di nuovo nell’incertezza totale sugli investimenti, non ci credo più”.

Scenderebbe ancora in piazza per difendere la fabbrica?

“No. Sicuramente non lo farei per tenerla aperta a tutti i costi”.

È il 2 giugno: cosa chiede alla Repubblica, allo Stato in questa occasione?

“Dico che rimanere uniti vuol dire difendere i diritti conquistati dai lavoratori, mentre oggi, a 50 anni dallo Statuto di Gino Giugni, vedo continui attacchi, anche ai salari”.

E per la fabbrica?

“Spero ancora in un intervento dello Stato, con almeno il 40 per cento del controllo della nuova società, accanto però a un privato che sia in grado di avere una visione e un progetto, per recuperare il portafoglio clienti perso in questi ultimi anni. E spero che si adottino tutte le misure necessarie per l’abbattimento dell’inquinamento, perché io da lavoratore e da cittadino mi sento vittima due volte di questa situazione”.

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