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Facebook, Zuckerberg ammette: “Siamo una media company”. Gli scenari giornalistici del social – La Repubblica

Dic 22, 2016

DOPO la resistenza fortissima degli ultimi mesi anche Mark Zuckerberg cede. E ammette: “Sì, siamo una media company. Anche se non tradizionale”. Il dibattito sembra sottile e ad esclusivo uso degli addetti ai lavori, ma da quell’impostazione dipende in realtà il futuro assetto della piattaforma più popolata del mondo, avviata a varcare i due miliardi di utenti attivi. Vogliamo un posto sicuro, regolato con ottica giornalistica o un canale neutro destinato però a essere gestito in modo automatico da regole contraddittorie?

Una mezza ammissione era arrivata già qualche giorno fa, quando annunciando l’introduzione della segnalazione per i post contenenti bufale (non si sa quando sarà attiva fuori dagli Stati Uniti), il fondatore aveva spiegato che Facebook ha “responsabilità superiori a quelle tecnologiche”. La conferma è arrivata oggi nel corso di un’informale video chat di fine anno insieme alla sua collaboratrice più importante, Sheryl Sandberg, direttrice operativa della società, vero motore di Menlo Park. “Facebook è un nuovo tipo di piattaforma – dice Zuck nel video – non una tradizionale società tecnologica. Ma neanche una tradizionale media company. Costruiamo tecnologie e ci sentiamo responsabili su come vengano usate”.

In seguito l’ex enfant prodige di Dobbs Ferry è tornato sul punto, entrando nel dettaglio del mondo giornalistico: “Non scriviamo le notizie che le persone leggono sulla piattaforma – ha detto – ma nello stesso tempo sappiamo che il nostro ruolo è superiore a quello di distributori di notizie e occupiamo una parte importante nel dibattito pubblico”. Forse non è chiaro ma solo tre mesi fa ascoltare parole simili da parte di Zuckerberg sarebbe stato impossibile. Appena lo scorso agosto, intervenendo alla Luiss di Roma, aveva ribadito in modo perentorio di non considerare Facebook una media company. La differenza sarebbe – e a questo punto sarà sempre di più – assoluta, anche sotto il profilo finanziario e pratico. Sia in casa, in base ad alcune leggi che sollevano i fornitori di servizi digitali dalle incombenze in campo agli editori e in generale agli operatori dell’informazione, che nel resto del mondo. Dove, specie in Europa, i vincoli sono ancora più stretti.

Cos’è successo, in questo periodo? Facile. L’elezione di Donald Trump alla Casa Bianca. Ma soprattutto, ben oltre il trionfo del tycoon statunitense, l’esplosione della fabbrica delle bufale e delle cosiddette fake news ai quattro angoli del globo. Italia inclusa: la notizia più condivisa sui social nel corso della campagna referendaria è stata una bufala. Si è insomma finalmente capito che Facebook è stata infettata da chi, sulla disinformazione, ci guadagna: denaro (come dimostrano i recenti casi di Liberogiornale e della società pseudobulgara che si nasconde dietro un ecosistema di siti spazzatura) o magari ritorno e credito politico. Che poi i social network siano o meno in grado di orientare una porzione dell’opinione pubblica è un altro discorso: rimane il dato d’osservazione. Cioè un sito stracolmo di opportunità, dalle qualità magnetiche che generano dipendenza e tendono a non far scappare l’utente (chat, acquisti, eventi), infiltrato da contenuti spesso scadenti e in cui la gestione del controllo, così come dell’hate speech (lo dimostra un’inchiesta uscita ieri sulla tedesca Süddeutsche Zeitung), è affidata a sistemi migliorabili.

Un altro segnale raccontava nei giorni scorsi di questa inattesa e significativa ammissione. La ricerca, da parte di Facebook, di un capo delle partnership giornalistiche. Un ruolo che, a leggere la descrizione, si delinea in realtà come una sorta di direttore editoriale globale e parafulmine delle polemiche che quotidianamente toccano il social per quanto riguarda i temi dell’informazione. Non sarebbe in fondo la prima tech company ad avvicinarsi al mondo dei media tradizionali per aumentare la qualità dei propri contenuti: l’hanno fatto a Snapchat con Peter Hamby, a Twitter con Peter Greenberger e a Google con Richard Gingras.

Nel frattempo da Menlo Park – a conferma della centralità della piattaforma anche sotto altri punti di vista – hanno pubblicato il rapporto Global government requests report. Si tratta di un rapporto, consultabile anche sotto forma di mappa interattiva, che rende conto delle richieste di accesso ai dati inoltrate da governi, tribunali e forze dell’ordine nel mondo al gruppo californiano. Le notizie non sono straordinarie. Come spiega sul blog ufficiale Chris Sonderby, vicedirettore e viceresponsabile del dipartimento legale della compagnia, nei primi sei mesi del 2016 le amministrazioni hanno bussato alla porta il 27% in più rispetto alla seconda parte dell’anno precedente. Da 46.710 richieste di dati e informazioni a 59.229. Tuttavia il numero dei contenuti di cui è stata domandata la rimozione per aver violato legislazioni locali è sceso da 55.827 a 9.663. In questo caso era quel primo, elevato dato a essere anomalo, visto che aveva riguardato una singola immagine legata agli attentati parigini del 13 novembre 2015. In Italia le richieste totali sono state 1.193 e hanno coinvolto 2.877 persone. I dati sono stati però diffusi nel 56% dei casi. Appena 11 le rimozioni di contenuti specifici.

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