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Lotito esclusivo: “Lazio più forte con o senza Milinkovic-Savic”

Lug 18, 2019

Il sole picchiava forte, quel pomeriggio in via Nicotera, sotto lo studio del notaio Gilardoni. Nessuno lo conosceva, non esistevano le sue foto. Claudio Lotito era riuscito a non farsi ritrarre neppure negli uffici di Capitalia durante il duello con Piero Tulli per l’ingresso nell’azionariato biancoceleste. Quando scese dalla macchina guidata da Luca, il suo fidatissimo autista, gli misero al collo una sciarpa della Lazio. Era il 19 luglio 2004. Quindici anni domani. Sembrano volati per quanto siano stati intensi, lunghi, combattuti, criticati, ma Lotito è già diventato il presidente più longevo nella storia moderna della Lazio. Ha raggiunto Umberto Lenzini, numero uno dal 18 novembre 1965 al 10 settembre 1980. Ha superato Sergio Cragnotti, il più titolato. Lo precede, in un’altra epoca, solo Fortunato Ballerini, presidente della Lazio dal 1904 al 1923 e poi dal 1923 al 1925. Oggi Lotito ha fissato due obiettivi, la Champions e il nuovo stadio, senza negarsi un sogno. Così, immaginando un futuro migliore, ha inserito un premio scudetto nel contratto di Inzaghi. Non deve vincerlo a breve scadenza, ma segnala le ambizioni e la voglia di crescere, come gli chiedono i tifosi. Ieri, a poche ore dal quindicesimo anniversario come presidente, ci ha raccontato tutto o quasi.

Qual è il suo primo ricordo tornando al 19 luglio 2004?

«Erano giornate frenetiche, avevo preso l’impegno morale di salvare la società, a parte l’interesse di diventare il presidente della squadra del cuore. Sentivo la responsabilità di dover salvaguardare il patrimonio di un club con oltre cento anni di storia, il primo nato a Roma. Ricordo le tensioni per l’acquisizione, non era semplice. Tutti lo ricordano. La Lazio era in una situazione prevista dall’articolo 2247 del codice civile, si rischiava di portare i libri contabili in tribunale: 84 milioni di ricavi, 86 di perdite, 550 milioni di debiti. Da tutti era ritenuta una sfida scriteriata, impossibile da portare a termine. Questo è un pazzo, mi dicevano, ma vedevo l’entusiasmo della gente».

Si tuffò giorno e notte nel calcio.

«Non avevo altra scelta. Arrivai a lavorare 23 ore al giorno, uscivo alle 6 di mattina dall’ufficio, davo appuntamenti alle 2 di notte. Ricordate il mercato? Presi 9 giocatori l’ultimo giorno. Non avendo grandi risorse, non capivo perché i giocatori non dovessero essere testati. Prendemmo quasi tutti in prestito con diritto di riscatto, fui attaccato ma quel giorno comprai Siviglia e Rocchi, che ha fatto la storia della Lazio con i suoi gol. Pensavo che il club dovesse diventare una grande famiglia in cui ognuno ha il proprio ruolo. Oggi Rocchi allena nel settore giovanile e ha fatto un altro salto in avanti, come è accaduto per Inzaghi. Tommaso è un riferimento per i giovani, ha fatto la storia, ci sono dei valori da cui non prescindere».

Impatto durissimo.

«Dissi che dopo aver trovato la Lazio al funerale, l’avevo portata in coma irreversibile e avrei dovuto renderlo reversibile. Un suo collega del Corriere dello Sport-Stadio, Pietro Cabras, mi chiese quanto tempo avrei impiegato. Risposi tre anni e così è stato. Pagavo due squadre. Quella allestita da me e costava un terzo rispetto a quella del piano Baraldi a cui non erano stati pagati gli stipendi. Con le norme attuali la Lazio non si sarebbe iscritta al campionato. La salvezza vera si realizzò attraverso l’accordo con l’Agenzia delle Entrate, avevamo 140 milioni di debiti con il Fisco. Fui il primo a ottenere la transazione. Ci tengo a dirlo: non era una legge fatta ad hoc per Lotito, ma esisteva dal 2002. Restavano altri 450 milioni di debiti, avevo la fila dei creditori nel mio ufficio a chiedere il conto».

Leggi il resto dell’intervista sull’edizione del Corriere dello Sport-Stadio oggi in edicola

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