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Bari, in un ripostiglio del Politecnico gli scatti dei grandi maestri della fotografia

Mar 4, 2017

È la storia di una istituzione virtuale, quella del Museo della fotografia del Politecnico di Bari. Di fatto mai nato se non sulla carta. Quello che ne resta oggi è una targa al primo piano del Campus, in una minuta saletta espositiva chiusa da dicembre scorso e disadorna che pure, nel 2013, quando fu assegnata al museo sembrò un miracolo. Ma tant’è. Basta varcare le soglie dell’archivio del museo per accorgersi invece di come si tratti piuttosto di un ripostiglio, dove nella cassettiere domina il disordine e spicca soprattutto un dubbio stato di conservazione di un patrimonio che altrove avrebbe dato vita a un grande museo.

Apri un cassetto e spuntano fuori le foto di un maestro come Olivo Barbieri, dimenticate quasi si trattasse di robaccia: una sequenza di scatti del 1999 sul territorio di Canosa e del fiume Ofanto, a suo tempo commissionata dallo stesso Politecnico all’autore modenese. In una scatola, invece, le foto di Mario Cresci a Campi Salentina e quelli di Gianni Leone a Lucera e Uliano Lucas a Mola. In una cartellina quelle di Vittore Fossati, chissà dove invece le quasi 200 fotografie di Guido Guidi e Giovanni Chiaramonte: in uno degli scatoloni impolverati di questo ripostiglio? È difficile chiamarlo archivio, non foss’altro che nemmeno una catalogazione compiuta di questo straordinario patrimonio acquisito con fondi del Politecnico è stata mai fatta, figuriamoci una digitalizzazione. Con l’aggravante che si tratta di un tesoro invisibile: solo nel 2015 sono state esposte le opere di Guidi e Chiaramonte, e nemmeno tutte, e Cresci.

Per non parlare della malasorte toccata, fra gli altri, agli scatti donati anni fa da Michele Cera, autore barese finito nel fondo di Maxxi Roma: le stampe sono rimaste imbustate col risultato che alcune si sono appiccicate fra loro. La ‘malsana’ idea di dare vita a un archivio fotografico risale al ’96, quando l’urbanista Dino Borri dirigeva il dipartimento di Architettura e a commissionare una serie di lavori sul territorio, affidandoli ai maestri della fotografia italiana. Nel 2006, cresciuto a dismisura l’archivio, il patrimonio confluì in un seppur virtuale museo della fotografia del Politecnico, la cui direzione fu affidata a un funzionario tecnico, Pio Meledandri, che pure a titolo volontaristico fino al 2016, benché in pensione negli ultimi due anni, ne era direttore culturale.

Col senno di poi, invece, Borri ammette che “l’idea di un museo di alta fotografia, non tanto di carattere tecnico-documentario, non è stata mai compresa dal Politecnico. Che anzi ha vissuto forse come un peso il ricevere l’incombenza e il prendersi cura di questo patrimonio. Non si spiega diversamente il disimpegno del Politecnico”. Né l’individuazione di un direttore scientifico, la vice del rettore Loredana Ficarelli, si è finora risolta d’aiuto per risollevare le sorti del museo. E le prospettive non sembrano rosee perché se per un verso il rettore Eugenio Di Sciascio annuncia di “voler cominciare ad esporre a rotazione i fondi del museo della fotografia entro l’estate” l’auspicio è “trovare un nuovo direttore culturale che accetti preferibilmente tale incarico a titolo gratuito” non senza un ma: “Il museo non dispone di una dotazione finanziaria specifica”.

Si è dinanzi alla vigilia del cronaca di una morte annunciata? A giudicare dallo stato in cui versa il ripostiglio, pardon

archivio, del museo i presupposti ci sarebbero tutti. “Forse – suggerisce Borri – sarebbe meglio che il Politecnico donasse, o cedesse in comodato, l’archivio del museo a un’istituzione che possa prendersene cura. La soluzione non sta certo nella individuazione di un nuovo direttore, o piuttosto in un auspicabile comitato scientifico-culturale di indirizzo mai nominato: servono fondi per proteggere e musealizzare e far crescere un tesoro altrimenti destinato a una fine certa”.

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