Non c’è un perché nell’omicidio del giovane Stefano Leo, il commesso del negozio K-way, originario di Biella, 33 anni, ammazzato, con una coltellata alla gola sulla passeggiata di lungo Po Machiavelli ormai 5 settimane fa (era la mattina del 23 febbraio scorso). È stato ucciso da un giovane italiano di origini marocchine di 27 anni, disoccupato. Ma senza un movente, senza una ragione apparente che potesse giustificare una barbarie simile. Ieri pomeriggio il suo omicida ha confessato. Proprio nel giorno della marcia in ricordo della vittima che si era svolta al mattino ai Murazzi nel luogo dell’assassinio alla presenza della sindaca Chiara Appendino.
Intorno alle 16 il killer si è presentato negli uffici della questura. Ha riferito di voler parlare della morte di Stefano Leo. «Sono io l’assassino». Poco dopo – in un’ottica collaborativa tra forze dell’ordine – l’uomo è stato accompagnato nella caserma dei carabinieri di via Valfrè, sede del comando provinciale. E qui è stato interrogato a lungo alla presenza del suo avvocato, Basilio Foti, dei due magistrati titolari dell’inchiesta: Enzo Bucarelli e Ciro Santoriello e del colonnello Francesco Rizzo comandante provinciale dei carabinieri. Alla fine ha confessato di averlo ucciso lui. «Sono io che gli ho tagliato la gola» ha spiegato senza tentennamenti.
Solo reati da minorenne
Ecco, ciò che manca è il motivo. Glielo hanno domandato. Non c’è. Assassino e vittima nemmeno si conoscevano. Non vi è mai stato un contatto nella loro vita. Nel casellario giudiziario non si riscontrano precedenti penali significativi, se non alcuni reati di lieve entità commessi all’epoca in cui era minorenne.
Il caso dunque, dopo settimane di paura, psicosi collettiva e di indagini a tutto campo, pare risolto. Intanto perché il racconto dell’uomo – attualmente in stato di fermo per omicidio volontario – collimava con le indagini fin qui condotte dai carabinieri. Molti dettagli combaciavano tra la confessione e quanto emerso dalle investigazioni. Quando poi il giovane ha chiesto ai carabinieri di accompagnarlo sul luogo in cui aveva nascosto l’arma del delitto il cerchio si è chiuso.
E aumenta, col senno di poi, l’incredulità per una persona che è rimasta libera di uccidere ancora, senza motivo, altra gente. Era il rischio che sia i magistrati che i carabinieri speravano di poter escludere. Chiunque avrebbe potuto fare la stessa atroce fine di Stefano Leo: ucciso, da un momento all’altro, senza alcuna spiegazione. Senza aver fatto nulla di che. Senza una ragione plausibile che potesse scatenare tanta violenza.
Il rischio mitomane
Ieri pomeriggio, quando l’assassino si è ritrovato davanti ai carabinieri, è sembrato – per un attimo – di rivedere una scena già vista. Alcuni giorni fa un mitomane si era rivolto ai militari confessando l’omicidio: «Sono stato io. Arrestatemi. L’ho accoltellato e dopo averlo fatto ho gettato il coltello in un cassonetto dalle parti di Moncalieri».
Quel giorno però ci si era resi conto presto che il presunto reo confesso era in realtà un mitomane. Dopo ore era stato accompagnato in ospedale per un trattamento sanitario d’urgenza. Aveva assunto droghe e lo aveva confessato al termine di un lunghissimo interrogatorio.
Ieri pomeriggio no. Ieri è bastato ascoltare i primi stralci del racconto per capire che ciò che il ragazzo di 27 anni che si autoaccusava del delitto stava dicendo, era verosimile, incredibilmente verosimile.
Il coltello in piazza d’Armi
I dettagli, poi l’arma del delitto ritrovata in una cassetta dell’elettricità in piazza d’Armi. L’assassino aveva nascosto lì il coltello molto probabilmente subito dopo aver ucciso Leo Resta lo sconcerto per una morte senza una ragione. Si può essere uccisi cosi?
Quando mancano pochi minuti all’una di notte l’assassino di Leo esce a bordo di un’auto borghese dei carabinieri diretto verso il carcere. Indossa un parka. Ha il cappuccio tirato sulla testa. Si volta verso i fotografi. Fa le corna.
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