“Sono ghiottissimo di Cappelletti in Brodo. Mi ricordano la mia vita da piccolino. Ricordo anche che non amavo il brodo, mangiavo solo i cappelletti. Un giorno un mio zio, scherzando, fece dei fori in un piatto, quasi fosse un colapasta, in maniera tale che io potessi mangiarli senza dovere prendere anche il brodo con il cucchiaio”.
Gianluca Gorini, tra i giovani emergenti nel panorama della gastronomia di casa nostra comincia così a raccontare la sua storia. Usa un aneddoto della sua infanzia proprio per farci capire che è da quel periodo della sua vita che tutto è cominciato, che ha capito quale sarebbe stata la sua strada. E’ ancora giovanissimo, per la verità, ha soli 33 anni, ma a rileggere il suo percorso di vita professionale sembra ne abbia molti di più.
Perché i cappelletti in brodo? Perché la voglia di diventare uno chef?
Sono nato in una famiglia di ristoratori. I mie avevano una trattoria ed io fin da bambino ho respirato il profumo straordinario della pasta fresca fatta in casa. Era magico vedere la nonna e la mamma lavorarla con le mani. A volte giocavano con me impiastricciandomi tutto. Erano gesti semplici. Nelle loro mani il matterello correva sull’impasto e sfornava sfoglia che poi lavoravano con maestria. C’era amore in quello che facevano, c’era emozione. Credo sia questo ciò che mi ha colpito di più.
I profumi creano ricordi, avvicinano al passato, così come i sapori: lavorare in cucina, per me, ha sempre rappresentato un forte ancoraggio a quello che sono stato. Mi permette di riviere costantemente quell’amore e quelle emozioni e di trasferirle alla mia clientela.
Ma quello è stato solo l’inizio. Poi cos’è successo?
Quand’ho capito che la cucina sarebbe stata la mia vita ho fatto di tutto per inseguirla. Ho frequentato l’Istituto alberghiero a Pesaro ed ho cominciato a lavorare in locali e ristoranti della Romagna. L’ esperienza è la base essenziale nella vita di ciascuno di noi. La vera scintilla, il vero passaggio di stato, è arrivato proprio grazie a questo percorso. Tra i tanti ho fatto uno stage a Bagno di Romagna da Paolo Tenerini ed è stato un vero colpo di fulmine. Sono rimasto folgorato dalla sua passione per questo mestiere, da come si muoveva in cucina. Ho capito quanto fosse importante la conoscenza della materia prima. Lui in questo è un artista ed è stato capace di trasmettermi il suo modo di fare e di essere, la sua profondità, le sue capacità. Avevo solo 22 anni allora. Attorno a questo mondo straordinario non c’era ancora l’attenzione che i media gli regalano adesso. Non c’era niente di così scontato come avviene per chi si avvicina alla cucina oggi. L’effetto sorpresa ha inciso sul mio percorso quanto il fascino di ciò che vivevo. Tutto sembrava amplificato nei gesti, vivevo dinamiche che non mi aspettavo di vivere.
Grazie a Tenerini ho capito che le emozioni che avevo vissuto da bambino nella cucina della mia trattoria, dovevo trasformarle in qualcosa di più: è in quel periodo che ho compreso cosa significasse davvero essere uno chef e quanto desiderassi diventarlo.
Sei voluto andare all’estero per cercare nuove esperienze?
Esperienza, volontà, preparazione e coincidenze fortunate. Credo sia questo il riassunto della mia vita professionale. Stando a contatto con i turisti in Romagna mi ero fatto l’idea che fosse importante imparare bene l’inglese, così decisi di andare a lavorare a Londra. Trovai un ristorante in cui lavorare ed una casa con altri ragazzi in cui abitare.
E’ qui che entra in gioco il destino. Uno dei ragazzi che vivevano con me era americano e lavorava in un ristorante francese proprio lì in città. Si trattava di un ristorante stellato. Il mio coinquilino mi disse che stavano cercando un ragazzo. Decisi di andare. Restai lì per un anno intero. Feci la spugna, cercai di apprendere quanto più possibile da quell’esperienza. La direzione del ristorante era tipicamente francese: rigorosa, attenta, precisa, senza nessuno spazio per l’improvvisazione. Lavoravo per la prima volta in una grande brigata, compresi l’importanza dell’organizzazione, delle gerarchie. Ognuno di noi aveva il suo posto, ogni cosa aveva il suo posto, tutto era perfettamente incasellato. Sono entrato in quel gruppo consapevole della mia inesperienza, spesso preso in giro bonariamente da chi mi stava attorno. Sono andato via con la stima ed il rispetto di tutti, in particolare dello chef: il mio impegno era stato premiato. Ho capito che quando ci metti passione, volontà, sacrificio e preparazione, nulla ti può essere precluso.
Il resto è storia più recente?
Relativamente. Rientrato dall’Inghilterra sono tornato da Teverini dove sono rimasto quattro anni. Lì sono cresciuto in un momento di forte fermento attorno alla cucina, abbiamo viaggiato tanto. Ho fatto nuove esperienze, provato nuovi sapori. Ho amplificato la mia curiosità, non ho mai dato nulla per scontato: credo sia proprio questa la strada che i ragazzi di oggi dovrebbero seguire. La curiosità è il motore della ricerca, della crescita personale, alimentarla aiuta ad arrivare prima dove si desidera arrivare. Il segreto del successo sta nelle domande che ci facciamo. Io non ho mai smesso di farlo, ancora oggi, e di cercare sempre le risposte.
L’ incontro con Paolo Lopriore in cosa ti ha cambiato?
Quando ti fai tante domande alla fine arrivano anche le risposte, come dicevo prima. Ad un certo punto della mia vita ho sentito l’esigenza di fare nuove esperienze. L’incontro con Paolo mi ha aiutato in tal senso. Con lui ho chiuso una parte dell’importante cerchio della mia preparazione. Lavorando nella sua struttura ho compreso che ciò che il cliente finale trova nel piatto è solo la conseguenza logica di tutto il lavoro che c’è dietro. Si cominciava a lavorare alle sei del mattino, a preparare la materia prima e poi, pian piano, a sviluppare l’intero percorso gastronomico. Per fare un parallelo con il teatro, il piatto è la rappresentazione serale davanti al pubblico, il servizio dell’intera giornata, sono le prove, innumerevoli prove, che gli attori svolgono per far si che la loro recita sia perfetta.
Le Giare
La voglia di fare da solo, di costruire qualcosa di tuo com’è nata?
Credo sia stata la logica conseguenza del mio percorso e, come spesso dico, anche la somma di tante coincidenze fortunate. Essere qui, a due passi da casa mia a “Le Giare”, ed essere considerato tra gli chef emergenti nel panorama nazionale, mi fa sentire bene. Sono abituato a fare le cose per gradi, a costruire senza frenesia, mettendo su il mio muro mattone dopo mattone e realizzandolo su una base solida. Semplice, come la mia cucina. E’ quella del mio territorio, quella dei sapori tradizionali di mia madre e di mia nonna, del sapore della pasta fresca. Il tutto senza orpelli e montature, per fare in modo che il sapore, quello vero arrivi a chi sceglie di sedersi a tavola nel nostro ristorante. E’ un po’ come se attraverso la mia cucina si possa sentire la somma delle mie esperienze che passano dalla trattoria dei miei di quando ero ragazzino alla cucina classica e creativa degli successivi. Tutto porta a me ed alla mia voglia di far mio, dal punto di vista gastronomico, il percorso fatto finora, un percorso che credo non finirà mai di aggiungere esperienza all’esperienza e sapore al sapore.