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Giovanni Malagò esclusivo: «Le seconde squadre presto saranno realtà»

Mag 5, 2018

Walter Veltroni

sabato 5 maggio 2018 09:39

ROMA – Giovanni Malagò, Milan, Lazio, Juventus, Roma. Una sequenza di episodi arbitrali in sede europea abbastanza sconcertante. Conta così poco il calcio italiano in Europa? «Io non direi che è un problema del calcio italiano perché, per due anni di seguito, la squadra più clamorosamente danneggiata è stata il Bayern Monaco che è un colosso, sotto ogni punto di vista. E’ davanti gli occhi di tutti come sia stato trattato in due semifinali diverse e quindi non mi sento di dire che il problema è di nostro appannaggio esclusivo. Però penso che bisogna accelerare il percorso del Var perché una grandissima quantità di errori commessi sarebbero stati evitati o corretti. Ceferin sostiene che serve tempo per preparare la classe arbitrale di così tante nazioni che danno supporto alle competizioni europee. Ha forse ragione ma, quantomeno nella fase finale, credo che nazioni più evolute dal punto di vista calcistico siano facilmente in condizione di essere formate per utilizzare la Var».

Lei sente che nel calcio europeo c’è un’egemonia spagnola, che è in primo luogo un’egemonia economico finanziaria?

«I risultati dicono questo perché, in percentuale quasi bulgara, negli ultimi anni le Coppe sono state vinte da squadre spagnole. Real, Barcellona la Champions, Siviglia in Europa League. In verità però questo discorso mi sembra sia più di carattere tecnico che economico finanziario. Perché se uno dovesse usare solo quel parametro allora le squadre inglesi dovrebbero fare man bassa. I fatturati delle prime quattro o cinque squadre inglesi non hanno nulla da invidiare, non dico a Siviglia , Valencia o Atletico Madrid, ma neanche al Barcellona e al Real. Credo che sia una migliore qualità d’investimento, una elevata capacità di gestione tecnica che in definitiva incide sui risultati della squadra. E comunque non dimentichiamoci che i due migliori giocatori al mondo giocano in Spagna».

Non contano anche le condizioni fiscali che la Spagna ha applicato per le società calcistiche?

«Argomento molto dibattuto. Sicuramente ci sono stati dei privilegi che hanno fatto molto arrabbiare i vari club perché hanno messo in condizione le società spagnole, fino a qualche anno fa, di avere delle opportunità contributive che sono per noi invece estremamente penalizzanti. Adesso, come dimostrano le indagini fiscali anche su Messi e Ronaldo, ci si è uniformati. Ma va detto che nel frattempo la costruzione delle rose è stata fatta, in questi anni, con indubbi privilegi per le squadre iberiche».

Diritti televisivi: non è singolare che le società di calcio italiane siano preoccupate della quantità di soldi che arrivano e assai meno di dove il prodotto sarà diffuso?

«Certo che è singolare, però qui si deve partire da un dato. I budget, i bilanci delle società incidono mediamente per oltre i quattro quinti dei ricavi delle stesse società. Questa è stata un’impostazione che apparentemente ha messo in condizioni i presidenti o i proprietari delle squadre di risolvere i loro problemi. In realtà io ho sempre sostenuto che è una politica che può aiutare nel breve-medio termine, ma non dà nessun tipo di certezza di capacità di investimenti per il futuro. E’ un problema di mentalità. Molte società non riescono a discostarsi da questa specie di filosofia: diritti televisivi, ricavi e garanzie. Io invece parto dal presupposto che è indispensabile diversificare il volume e le fonti dei ricavi agendo su tutta la tastiera. Chi invece ha quell’altra mentalità tende esclusivamente a massimizzare le entrate dalle televisioni a prescindere dal resto dei prodotti o dei servizi che la società può offrire. Ripeto, è un problema di mentalità, di cultura sportiva e imprenditoriale».

Come finirà la storia dei diritti televisivi dopo la vicenda Mediapro, la fideiussione non consegnata eccetera?

«Io mi auguro, da commissario, che si trovi una soluzione nella quale non ci debbano essere tra le parti, i tre soggetti Mediapro, Sky e Lega, vincitori o vinti. Sarebbe un segnale di certezza molto apprezzato dall’opinione pubblica, dai tifosi in generale e che potrebbe rimettere in condizione tutto l’ambiente, una volta per tutte, di evitare strascichi e polemiche. Anche perché qualsiasi contenzioso giuridico che rimanesse sospeso sarebbe un rischio mortale per il nostro calcio».

Perché il calcio italiano è sempre territorio di conflitti, di caos, di litigi e non trova quella compattezza che c’è in altri Paesi, facendone la forza?

«Io sostengo da tempo la tesi che quando a comandare è un’assemblea, e in questo caso mi riferisco a quella dei rappresentanti delle società, è quasi naturale che si creino questi conflitti: fazioni che si sono per anni contrapposte su tutto e per tutto. E’ invece indispensabile, e mi auguro che entro il mese di maggio si possa avere, il completamento di una governance che metta in condizione di agire la Lega. Saranno i rappresentanti delle società a decidere chi dovrà assumersi la responsabilità di gestire i vari problemi del calcio. Come in tutte le società che si rispettano – e non vedo perché questa associazione debba sfuggire a questa regola – l’assemblea si deve convocare una o massimo due volte l’anno. Per gli adempimenti formali, bilancio o rinnovo delle cariche, per dare delle indicazioni di strategia generale. Punto. Tutto il resto deve essere competenza di un management capace, terzo, impermeabile a quelle che sono le pressioni di questo o di quel presidente. Manager che devono fare solo il bene comune del calcio. Esattamente quello che succede negli altri Paesi. Lo sport professionistico americano,che, per antonomasia, è la stella cometa di qualsiasi organizzazione sportiva, da quarant’anni ha adottato questo sistema e guardi che risultati ha raggiunto in qualsiasi Lega: pallacanestro, baseball, hockey, football americano. La stessa cosa dovremo arrivare a fare in Italia. Aggiungerei questo per essere chiaro fino in fondo: senza mancare di rispetto a nessuno. Io penso che il calcio italiano debba passare dalla cultura del padrone alla cultura del manager».

E’ immaginabile un commissioner sul modello dell’NBA?

«E’ il mio sogno e sarebbe, secondo me, il passaggio successivo a questa fase di nuovo equilibrio tra manager e assemblea. Un commissioner sarebbe una figura ancora più snella, più elastica, più diretta nella gestione. E’ chiaro che il potere di questa persona sarebbe enorme, ma se si riuscisse a trovare chi ha le qualità, il curriculum, il carattere, le competenze professionali, sarebbe il completamento di un percorso di necessaria modernizzazione».

Leggi l’intervista completa sull’edizione del Corriere dello Sport-Stadio oggi in edicola

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