ROMA – L’accusa è pesante: hanno scommesso con i soldi degli italiani. E costretto lo Stato a chiudere in fretta e furia contratti con Morgan Stanley in perdita per tre miliardi di euro tra dicembre 2011 e gennaio 2012. Ora la Corte dei conti li ha convocati tutti e ha chiesto loro danni per 4,1 miliardi.
Davanti alla magistratura contabile dovranno presentarsi, oltre alla banca d’affari Usa, Maria Cannata, direttore del Debito pubblico, che dal 2000 ad oggi ha firmato molti di quei contratti e i relativi decreti di approvazione e Vincenzo La Via, predecessore della Cannata. Insieme a loro, Domenico Siniscalco, direttore generale del Tesoro, che terminata la propria esperienza ha pensato bene di andare a lavorare proprio per Morgan Stanley e Vittorio Grilli, anche lui direttore del Tesoro, e passato, una volta uscito dallo Stato, nelle fila di un’altra banca d’affari Usa, la Jp Morgan.
La loro colpa, secondo la ricostruzione del pubblico ministero contabile Massimiliano Minerva, è di aver concesso a Morgan Stanley una clausola per nulla compatibile con gli obiettivi di gestione del debito pubblico del Tesoro. Di fatto, l’esposizione dello Stato nei confronti dei creditori si spalma in un periodo di medio o lungo termine, come avviene in genere per qualsiasi mutuo. Quella clausola (in gergo Ate, Additional termination events), invece, una volta attivata, imponeva alla Stato di chiudere tutta l’esposizione verso quella banca dall’oggi al domani. In particolare, la Morgan Stanely poteva chiedere all’Italia la chiusura di tutte le posizioni debitorie qualora l’esposizione creditizia avesse superato un limite prestabilito.
Tra il 2011 e il 2012, in piena turbolenza finanziaria con gli spread impazziti e rischi di fallimento per gli Stati nazionali all’ordine del giorno, Morgan Stanley ha chiesto l’attivazione della clausola, sebbene già altre volte si fosse verificato l’evento per chiedere la risoluzione. E il governo Monti ha obbedito senza batter ciglio, sborsando 3,1 miliardi di euro.
Come se non bastasse alcuni contratti derivati stipulati dal Tesoro non avevano una finalità di sola copertura contro i rischi di cambio o di tasso, ma avevano in sé alcune caratteristiche speculative, vietate a un investitore pubblico. Una di queste “scommesse”, come le definisce la procura regionale Lazio della Corte dei conti, ha permesso a Morgan Stanley di incassare 1,3 miliardi a fronte di un esborso iniziale a favore del ministero del Tesoro di soli 47 milioni di euro (si tratta della vendita nel 2004 di una swaption collegata all’Interest Rate Swap a 30 anni da 3 miliardi).
Il Tesoro per via della sua forte posizione debitoria (l’Italia ha il terzo debito pubblico più grande al mondo pari a circa 2.150 miliardi di euro), si è trovato più volte in una posizione di debolezza nei confronti delle banche d’affari. Come se pur di veder collocati i propri titoli di debito, il Tesoro avesse dovuto concedere alcuni privilegi alle sue controparti finanziarie. Per esempio l’acquisto di contratti derivati. Di tutto questo ne dovranno ora rispondere i convocati. I danni stimati ammontano a 4,1 miliardi, perché ai 3,1 miliardi restituiti si sommano gli interessi per il costo del finanziamento aperto per sopperire al fabbisogno generato dalle operazioni di chiusura (725 milioni) e i flussi negativi generati dalle swaption (277 milioni).