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Webseries verticali: videocronaca di un naufragio, tra corpi senza vita, urla ed eroi

Nov 21, 2016

“Com’è profondo il mare” è la webserie ( 5 episodi da 3′ 30″) da oggi in esclusiva su Repubblica. it. È la seconda delle serie realizzate ” in verticale” da 42° parallelo per essere fruite sul mobile. Le immagini esclusive ci riportano alla più grande tragedia del mare legata all’immigrazione: il naufragio del 18 aprile 2015 nel Canale di Sicilia in cui morirono più di 900 persone.

UNA testa nera e riccia che da lontano sembra una boa, cadaveri stipati nelle stive come sacchi di mercanzie, sulle spiagge gli avanzi che porta il mare. Una scarpa, un telo strappato, dei jeans, una bambola, un bambino che non respira più. Corpi che galleggiano fra le onde, corpi calpestati dai piedi nudi sui barconi, corpi restituiti con l’ultima burrasca. Poi ci sono quegli altri incastrati nel blu più profondo, aggrappati a un argano o a una cima, abbracciati a un figlio, un fratello, una madre, schiacciati dai loro compagni che rassegnati si sono lasciati scivolare sino alla sabbia. Immobili, somigliano a manichini. Circondati da pesci curiosi, branchi di sgombri, di orate, di piccole cernie.

Cambiano solo le coordinate nautiche: al largo di Malta, davanti alle isole Kerkennah, a est di Kelibia. O ancora più vicino, quasi a terra, quasi in salvo: Cala Creta, la Tabaccara, Cala Madonna, Punta Rossello, Siculiana. Quanti sono? Statistiche, approssimative per difetto, dicono 10 mila negli ultimi tre anni. Ma come si fa la conta? Come si calcolano i morti in fondo al mare? È sempre e solo una questione di numeri. I numeri delle traversate, i numeri dei barconi, i numeri dei cadaveri ripescati, i numeri dei dispersi. I nomi degli uomini e delle donne e dei bambini che diventano anche loro numeri, sulle banchine o sui tavoli di marmo degli istituti di medicina legale. E numeri ci sono soltanto anche sulle croci dei piccoli cimiteri dei paesi siciliani che guardano l’Africa.

Tirarli su o lasciarli per sempre nel loro mare. Provate a chiederlo a quel sommozzatore dei vigili del fuoco di Catania che, all’alba del 15 settembre 2001 – quanto tempo è passato e quante altre “tragedie del Mediterraneo” abbiamo raccontato – si tuffava ogni due ore al largo dello scoglio che c’è davanti ai lidi di Realmonte e poi risaliva su con una ragazzina nuda, un vecchio con addosso un salvagente sgonfio, un uomo che nelle tasche dei pantaloni aveva sei datteri gialli. Il suo cibo per due giorni di viaggio da una sponda all’altra.

Ogni volta che il sub scendeva, s’infilava nel barcone sfasciato e passava per un varco stretto nascosto dalle reti. Ogni volta rischiava di incastrarsi con le sue bombole di ossigeno troppo grandi, rischiava di diventare un manichino pure lui. E continuava a issare sul gommone i cadaveri che non voleva abbandonare giù. “Tira, tira”, gridava agli altri con la fune quando aveva fra le braccia il cadavere. E gli altri tiravano con il mezzo marinaio. Difronte, a mezzo miglio, c’era la Scala dei Turchi con la sua marna accecante. Al tramonto il gommone dei sommozzatori di Catania era colmo di cadaveri che non meritavano di avere come tomba il mare.

Dai moli vediamo tutto e niente. Quei legni fradici che si avvicinano o si capovolgono, le motovedette che si dispongono a cerchio, le braccia tese per caricare a bordo i sopravvissuti. E poi le voci nel buio. Quelle metalliche delle radio della Capitaneria, le altre che salgono dal mare di notte. Il racconto di un superstite a Lampedusa: “Tutti gridavano intorno a me, tutti avevano paura, erano urla umane ma sembravano gabbiani”.

Ma chi l’ha detto che ne muoiono così tanti? “Le prove ci vogliono le prove. C’è forse una lista passeggeri e un diario di bordo sui barconi?” si chiedono quelli con il cuore gonfio di rancore e paura. Le prove, le prove sono a duecento, trecento, quattrocento metri più sotto. Bisogna immergersi negli abissi per trovarle, ripescarle, per riportarle in superficie e mostrarle in tutta la loro crudeltà sugli attracchi di “Lambadoza”, come i morti-vivi del mare chiamano l’isola di Lampedusa.

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