• 19 Aprile 2024 11:09

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Vittorio Pozzo, che ancora aspetta un minuto di silenzio

Giu 21, 2021

AGI – A vederne adesso le foto, che noi osserviamo dal computer ma se fossero su carta kodak avrebbero i bordi arrotolati come vecchi calzettoni, una cosa colpisce: Vittorio Pozzo aveva lo stesso sorriso di Giampiero Boniperti. Cioè l’uomo cui la Nazionale di Mancini ha tributato l’onore del lutto al braccio nel momento in cui di Pozzo rubava il record, e con esso la memoria e anche la gloria. Di lui, di Pozzo, da oggi resta meno mito e più statistica. Peccato, forse non lo meritava.

Quanto alla somiglianza, è vero che il carattere determina le fattezze, e quel sorriso indicava in entrambi sabaudissima gentilezza e distinzione dei modi, ma acciaio nella determinazione e, qualche volta, nell’autoaffermazione. Un terzo piemontese con quel sorriso lì è Oscar Luigi Scalfaro: per quel che riguarda il suo carattere si chieda a chi lo conosceva bene.

Si celebri allora Vittorio Pozzo: se non fosse per i due Mondiali vinti, e vinti in fila l’uno all’altro, oggi sarebbe l’ultimo applauso. Ma rifare quel che lui fece nel ’34 e nel ’38 è più che fatica improba: si sfonderebbe il muro dell’impensabile. Per sfondare quel muro, almeno almeno, se proprio gira benissimo, ci vorrebbero altri nove anni. Ma nel medio periodo, scriveva Keynes, potremmo essere tutti morti; e allora non diamoci troppo pensiero.

Si celebri dunque Pozzo che, per almeno altri nove anni, resterà sempre il Migliore. Poi si vedrà.

Pozzo nacque da famiglia distinta nella distinta provincia piemontese. Cent’anni e passa fa natali del genere erano garanzia di introduzione nell’elite medio-alta del Regno. Buon impiego, buone soddisfazioni, una certa agiatezza. Lui andò oltre e alla fine fu Piemonte, calcio, Italia e Novecento tutto insieme. Risorgimento e Italietta, Lissa e Bollettino Diaz, Grande Proletaria e reni spezzate, consenso e ripensamento. Finendo poi nel silenzio. Insomma, Cavour e Sciaboletta.

Non passa lo straniero

Sì: Cavour. Perché tutti e due iniziarono la carriera giovanissimi con un bel giro in Europa, l’uno a imparare l’arte georgica per la sua fattoria modello, l’altro a correre libero per i campi: quelli di football. Infatti giocò in Svizzera, nel Grasshoppers, e poi si spostò in Francia Germania e inevitabilmente Inghilterra. Tornò a casa che sapeva tutte quelle lingue, e le scriveva: l’impiego di dirigente alla Pirelli non glielo tolse più nessuno. Ma si può unificare l’Italia stando seduto al tavolo del Cambio di Torino, e si può dirigere l’Italia da una scrivania di altissimo burocrate del complesso industriale. Pozzo così finì a guidare la Nazionale alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Però non finì bene: due sconfitte più una vittoria. Curtatone e Montanara, più che Solferino e San Martino.

Avrebbe seguito di lì a poco Caporetto, questa volta quella vera. Ci sarebbero state delle conseguenze. Prima però è bene ricordare che l’infausta trasferta svedese non intaccò, in fin dei conti, l’ascesa di Pozzo, cui nel ’21 si deve una radicale riforma del campionato italiano con inevitabile scissione a tornei divisi e federazioni disgiunte. Tre anni dopo arriva la seconda nomina alla Nazionale e il secondo bagno, questa volta alle Olimpiadi parigine. Chiunque si sarebbe fermato, lui invece continuò ad andare avanti. Come Badoglio, che anni dopo Caporetto si trovò ambasciatore in Brasile.

Nel 1929 infatti lo convocò Leandro Arpinati, che era il ras del Fascio in quel di Bologna ma soprattutto il ras della Federcalcio ammansita al nuovo corso. Gli chiese di fare un terzo tentativo: il Nuovo Ordine aveva capito che, per fare una volta per tutte gli italiani, bisognava farli tifare tutti insieme. Ecco che monarchia e regime si saldavano. Stavano iniziando gli Anni del Consenso.

Ma prima un salto indietro, sempre a Caporetto.

Nota Antonio Gibelli, storico di classe, che la Prima Guerra Mondiale fu la prova generale di tutto il Novecento, nel senso che fornì il modello a tutti quelli che sarebbero venuti dopo. L’esercito di massa ai partiti e alle manipolazioni dittatoriali; lo sforzo di produzione bellica all’industrializzazione pervasiva; la struttura militare gerarchica ancora alle dittature e poi anche alle imprese. Persino i campi di sterminio nacquero sul modello dei campi di prigionia della Grande Guerra: Dachau ne è, anche fisicamente, l’esempio.

Pozzo ancora non poteva conoscere la teoria di Gibelli, ma ne applicava già il principio. Nei suoi ritiri della Nazionale non si fiatava: si marciava. E se qualcuno voleva ricevere una lettera da una fidanzata, o da un’ammiratrice, sapesse che prima sarebbe stata aperta, letta e vagliata dal Commissario Unico in persona. Proprio come se fosse stata censura di guerra.

Del resto non ci si poteva aspettare qualcosa di diverso da chi, vestita la divisa da ufficiale degli alpini, si era fatto proprio Caporetto con relativa ritirata. Il Novecento italiano iniziò proprio da lì.

Considerando, poi, che in quegli anni il calcio si faceva popolare e i calciatori non erano più le fighette universitarie degli albori, c’è da scommettere che come il Tenente Gallina della “Grande Guerra” di Monicelli (anche Gallina un piemontese, guardacaso) di lettere d’amore ne abbia scritte anche lui, a nome dei suoi ragazzi. E considerando ancora che le Giuliette dovevano essere istruite tanto quanto i rispettivi Romei, non si esclude nemmeno che Pozzo si sia trovato alla fin fine in corrispondenza d’amorosi sensi con qualche curato o qualche anziano professore di liceo. Ma non importa: un buon commissario fa questo e altro, per la causa.

E i risultati arrivarono. Si fece fuori Fulvio Bernardini, talentone della Lazio, perché troppo lezioso nel giocare (ma pare che dietro ci fosse anche una sfida automobilistica tra lui e il Duce su per le pendici del Quirinale). Si inserì un gruppo di oriundi latinoamericani (“Hanno combattuto per noi, possono giocare con noi” commentò il Commissario Unico, anticipando uno slogan che avrebbe fatto furore in America una ventina d’anni dopo). Si scelse la difesa della Juventus Combi-Rosetta-Caligaris, la migliore al mondo, con il laziale Piola davanti e l’interista Meazza a fargli il controcanto. Si passò infine dal sistema inglese al modello danubiano, più gradito.

Il sistema inglese infatti si basava sulla dimensione atletica del gioco, palla lunga e pedalare, e sull’individualità del dribbling ad andare in porta. Un’idea solitaria e cavalleresca del football, senza macchia e senza paura, ridotto quasi ad un torneo di lancillotti. Il metodo danubiano invece verteva tutto sulla leadership del centromediano, che impostava l’azione di tutta la squadra la quale a sua volta avvicinava il pallone alla porta altrui con una serie di passaggi rasoterra, ad evitare il più possibile l’uno contro uno.

Addio, albionico Lancillotto, adesso conta solo la Guida. Non ci vuole molto per capire a chi fosse gradita questa impostazione culturale del gioco più amato dagli italiani.

Consenso e castigo

È il 1930: vittoria nella Coppa Internazionale. Siamo nel 1934: Mondiale in casa dopo aver fatti secchi, nell’ordine, Stati Uniti, Spagna, la fortissima Austria e la Cecoslovacchia. Un anno dopo: nuova Coppa Internazionale.  Persino la soddisfazione di lavare l’onta di Stoccolma e di Parigi: 1936 vittoria alle Olimpiadi di Berlino, e nemmeno con la Nazionale maggiore. Infine 1938: vittoria ai Mondiali di Francia. L’apoteosi. Passeggiata con la Norvegia, 3-1 ai francesi padroni di casa, botte da orbi agli ungheresi in finale. Coppa Rimet alzata per la seconda volta.

E saluto fascista.

Ecco, questo è il punto. Nel momento in cui il fascismo raggiungeva il massimo consenso grazie anche a un legame ancora saldo con la monarchia, la Nazionale si presentava ormai negli stadi del mondo vestita di nero e dotata di saluto romano. Lo fece anche nella partita di esordio di quell’anno, a Marsiglia, che poi era la città dove in quel momento Sandro Pertini faceva il muratore per tirare a campare e dove un ragazzo toscano figlio di esuli socialisti imparava a cantare con il nome di Yves Montand.

Nessuno dei due, e nessuno dei loro compagni d’esilio, avrebbe dimenticato l’umiliazione. E se Badoglio avrebbe guidato il primo governo postmussoliniano in nome e per conto di Vittorio Emanuele, il conto – quello vero – sarebbe stato presentato a tempo debito, a tutti.

Il Re in esilio

Dopo la guerra si sarebbe accusato Pozzo di collaborazionismo. Lui rispose con prove inoppugnabili che ne dimostravano l’aver semmai collaborato con il Comitato di Liberazione Nazionale. Non si consideri la cosa l’ennesima storia di voltagabbana. Il fatto è che Pozzo, da buon sabaudo, aveva seguito la Corona nel suo concedere il consenso al regime, ma anche poi nel ritirarlo.

Divenne inevitabile, ad ogni modo, che si volesse chiudere un’epoca. Il 2 Giugno 1946, per Pozzo, arrivò il 9 novembre 1947. Amichevole con l’Austria, che ci fa a brandelli: 5-1. Qualcuno gli dice che ormai non è più cosa. Lui tergiversa, poi cede.

Morirà nel dicembre 1968. La domenica successiva, somma piccineria, la Federcalcio non avrebbe nemmeno fatto rispettare nei campi di gioco il minuto di silenzio in sua memoria.

In quella sfortunata partita, quella contro l’Austria, esordì un ragazzo bene educato, gentile, con davanti a sé una gran bella carriera. Si chiamava Giampiero Boniperti, quello che la Nazionale di Mancini adesso onora con il lutto al braccio.

Ma prima o poi la Nazionale potrebbe anche rispettare un minuto di silenzio per ricordare chi, per primo, la fece grande. Solo allora sarà il novantesimo.

AGI – A vederne adesso le foto, che noi osserviamo dal computer ma se fossero su carta kodak avrebbero i bordi arrotolati come vecchi calzettoni, una cosa colpisce: Vittorio Pozzo aveva lo stesso sorriso di Giampiero Boniperti. Cioè l’uomo cui la Nazionale di Mancini ha tributato l’onore del lutto al braccio nel momento in cui di Pozzo rubava il record, e con esso la memoria e anche la gloria. Di lui, di Pozzo, da oggi resta meno mito e più statistica. Peccato, forse non lo meritava.
Quanto alla somiglianza, è vero che il carattere determina le fattezze, e quel sorriso indicava in entrambi sabaudissima gentilezza e distinzione dei modi, ma acciaio nella determinazione e, qualche volta, nell’autoaffermazione. Un terzo piemontese con quel sorriso lì è Oscar Luigi Scalfaro: per quel che riguarda il suo carattere si chieda a chi lo conosceva bene.
Si celebri allora Vittorio Pozzo: se non fosse per i due Mondiali vinti, e vinti in fila l’uno all’altro, oggi sarebbe l’ultimo applauso. Ma rifare quel che lui fece nel ’34 e nel ’38 è più che fatica improba: si sfonderebbe il muro dell’impensabile. Per sfondare quel muro, almeno almeno, se proprio gira benissimo, ci vorrebbero altri nove anni. Ma nel medio periodo, scriveva Keynes, potremmo essere tutti morti; e allora non diamoci troppo pensiero.
Si celebri dunque Pozzo che, per almeno altri nove anni, resterà sempre il Migliore. Poi si vedrà.
Pozzo nacque da famiglia distinta nella distinta provincia piemontese. Cent’anni e passa fa natali del genere erano garanzia di introduzione nell’elite medio-alta del Regno. Buon impiego, buone soddisfazioni, una certa agiatezza. Lui andò oltre e alla fine fu Piemonte, calcio, Italia e Novecento tutto insieme. Risorgimento e Italietta, Lissa e Bollettino Diaz, Grande Proletaria e reni spezzate, consenso e ripensamento. Finendo poi nel silenzio. Insomma, Cavour e Sciaboletta.
Non passa lo straniero
Sì: Cavour. Perché tutti e due iniziarono la carriera giovanissimi con un bel giro in Europa, l’uno a imparare l’arte georgica per la sua fattoria modello, l’altro a correre libero per i campi: quelli di football. Infatti giocò in Svizzera, nel Grasshoppers, e poi si spostò in Francia Germania e inevitabilmente Inghilterra. Tornò a casa che sapeva tutte quelle lingue, e le scriveva: l’impiego di dirigente alla Pirelli non glielo tolse più nessuno. Ma si può unificare l’Italia stando seduto al tavolo del Cambio di Torino, e si può dirigere l’Italia da una scrivania di altissimo burocrate del complesso industriale. Pozzo così finì a guidare la Nazionale alle Olimpiadi di Stoccolma del 1912. Però non finì bene: due sconfitte più una vittoria. Curtatone e Montanara, più che Solferino e San Martino.
Avrebbe seguito di lì a poco Caporetto, questa volta quella vera. Ci sarebbero state delle conseguenze. Prima però è bene ricordare che l’infausta trasferta svedese non intaccò, in fin dei conti, l’ascesa di Pozzo, cui nel ’21 si deve una radicale riforma del campionato italiano con inevitabile scissione a tornei divisi e federazioni disgiunte. Tre anni dopo arriva la seconda nomina alla Nazionale e il secondo bagno, questa volta alle Olimpiadi parigine. Chiunque si sarebbe fermato, lui invece continuò ad andare avanti. Come Badoglio, che anni dopo Caporetto si trovò ambasciatore in Brasile.
Nel 1929 infatti lo convocò Leandro Arpinati, che era il ras del Fascio in quel di Bologna ma soprattutto il ras della Federcalcio ammansita al nuovo corso. Gli chiese di fare un terzo tentativo: il Nuovo Ordine aveva capito che, per fare una volta per tutte gli italiani, bisognava farli tifare tutti insieme. Ecco che monarchia e regime si saldavano. Stavano iniziando gli Anni del Consenso.
Ma prima un salto indietro, sempre a Caporetto.
Nota Antonio Gibelli, storico di classe, che la Prima Guerra Mondiale fu la prova generale di tutto il Novecento, nel senso che fornì il modello a tutti quelli che sarebbero venuti dopo. L’esercito di massa ai partiti e alle manipolazioni dittatoriali; lo sforzo di produzione bellica all’industrializzazione pervasiva; la struttura militare gerarchica ancora alle dittature e poi anche alle imprese. Persino i campi di sterminio nacquero sul modello dei campi di prigionia della Grande Guerra: Dachau ne è, anche fisicamente, l’esempio.
Pozzo ancora non poteva conoscere la teoria di Gibelli, ma ne applicava già il principio. Nei suoi ritiri della Nazionale non si fiatava: si marciava. E se qualcuno voleva ricevere una lettera da una fidanzata, o da un’ammiratrice, sapesse che prima sarebbe stata aperta, letta e vagliata dal Commissario Unico in persona. Proprio come se fosse stata censura di guerra.
Del resto non ci si poteva aspettare qualcosa di diverso da chi, vestita la divisa da ufficiale degli alpini, si era fatto proprio Caporetto con relativa ritirata. Il Novecento italiano iniziò proprio da lì.
Considerando, poi, che in quegli anni il calcio si faceva popolare e i calciatori non erano più le fighette universitarie degli albori, c’è da scommettere che come il Tenente Gallina della “Grande Guerra” di Monicelli (anche Gallina un piemontese, guardacaso) di lettere d’amore ne abbia scritte anche lui, a nome dei suoi ragazzi. E considerando ancora che le Giuliette dovevano essere istruite tanto quanto i rispettivi Romei, non si esclude nemmeno che Pozzo si sia trovato alla fin fine in corrispondenza d’amorosi sensi con qualche curato o qualche anziano professore di liceo. Ma non importa: un buon commissario fa questo e altro, per la causa.
E i risultati arrivarono. Si fece fuori Fulvio Bernardini, talentone della Lazio, perché troppo lezioso nel giocare (ma pare che dietro ci fosse anche una sfida automobilistica tra lui e il Duce su per le pendici del Quirinale). Si inserì un gruppo di oriundi latinoamericani (“Hanno combattuto per noi, possono giocare con noi” commentò il Commissario Unico, anticipando uno slogan che avrebbe fatto furore in America una ventina d’anni dopo). Si scelse la difesa della Juventus Combi-Rosetta-Caligaris, la migliore al mondo, con il laziale Piola davanti e l’interista Meazza a fargli il controcanto. Si passò infine dal sistema inglese al modello danubiano, più gradito.
Il sistema inglese infatti si basava sulla dimensione atletica del gioco, palla lunga e pedalare, e sull’individualità del dribbling ad andare in porta. Un’idea solitaria e cavalleresca del football, senza macchia e senza paura, ridotto quasi ad un torneo di lancillotti. Il metodo danubiano invece verteva tutto sulla leadership del centromediano, che impostava l’azione di tutta la squadra la quale a sua volta avvicinava il pallone alla porta altrui con una serie di passaggi rasoterra, ad evitare il più possibile l’uno contro uno.
Addio, albionico Lancillotto, adesso conta solo la Guida. Non ci vuole molto per capire a chi fosse gradita questa impostazione culturale del gioco più amato dagli italiani.
Consenso e castigo
È il 1930: vittoria nella Coppa Internazionale. Siamo nel 1934: Mondiale in casa dopo aver fatti secchi, nell’ordine, Stati Uniti, Spagna, la fortissima Austria e la Cecoslovacchia. Un anno dopo: nuova Coppa Internazionale.  Persino la soddisfazione di lavare l’onta di Stoccolma e di Parigi: 1936 vittoria alle Olimpiadi di Berlino, e nemmeno con la Nazionale maggiore. Infine 1938: vittoria ai Mondiali di Francia. L’apoteosi. Passeggiata con la Norvegia, 3-1 ai francesi padroni di casa, botte da orbi agli ungheresi in finale. Coppa Rimet alzata per la seconda volta.
E saluto fascista.
Ecco, questo è il punto. Nel momento in cui il fascismo raggiungeva il massimo consenso grazie anche a un legame ancora saldo con la monarchia, la Nazionale si presentava ormai negli stadi del mondo vestita di nero e dotata di saluto romano. Lo fece anche nella partita di esordio di quell’anno, a Marsiglia, che poi era la città dove in quel momento Sandro Pertini faceva il muratore per tirare a campare e dove un ragazzo toscano figlio di esuli socialisti imparava a cantare con il nome di Yves Montand.
Nessuno dei due, e nessuno dei loro compagni d’esilio, avrebbe dimenticato l’umiliazione. E se Badoglio avrebbe guidato il primo governo postmussoliniano in nome e per conto di Vittorio Emanuele, il conto – quello vero – sarebbe stato presentato a tempo debito, a tutti.
Il Re in esilio
Dopo la guerra si sarebbe accusato Pozzo di collaborazionismo. Lui rispose con prove inoppugnabili che ne dimostravano l’aver semmai collaborato con il Comitato di Liberazione Nazionale. Non si consideri la cosa l’ennesima storia di voltagabbana. Il fatto è che Pozzo, da buon sabaudo, aveva seguito la Corona nel suo concedere il consenso al regime, ma anche poi nel ritirarlo.
Divenne inevitabile, ad ogni modo, che si volesse chiudere un’epoca. Il 2 Giugno 1946, per Pozzo, arrivò il 9 novembre 1947. Amichevole con l’Austria, che ci fa a brandelli: 5-1. Qualcuno gli dice che ormai non è più cosa. Lui tergiversa, poi cede.
Morirà nel dicembre 1968. La domenica successiva, somma piccineria, la Federcalcio non avrebbe nemmeno fatto rispettare nei campi di gioco il minuto di silenzio in sua memoria.
In quella sfortunata partita, quella contro l’Austria, esordì un ragazzo bene educato, gentile, con davanti a sé una gran bella carriera. Si chiamava Giampiero Boniperti, quello che la Nazionale di Mancini adesso onora con il lutto al braccio.
Ma prima o poi la Nazionale potrebbe anche rispettare un minuto di silenzio per ricordare chi, per primo, la fece grande. Solo allora sarà il novantesimo.

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