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Terremoto, le lacrime del sindaco ai funerali delle vittime di Amatrice: “Amavano questa terra”

Ago 30, 2016

AMATRICE – Non c’è facciata in questa chiesa improvvisata che ha per sfondo le macerie, mentre piove sulla tensostruttura bianca allestita davanti all’istituto padre Minozzi dove in primavera si correva il palio dei somari. Fino a qualche giorno fa qui c’era l’obitorio, ora arrivano lente le bare. Prima le grandi, accompagnate dai fiori e dai parenti, poi le piccole, bianche, introdotte dal rumore dei flash dei fotografi. Su tutto vigila lo sguardo tenero della Madonna della neve, portata da Bacugno e poggiata qui, su un cumulo di macerie.

Sull’altare un vigile del fuoco sale su una scala per issare un Cristo senza croce. Resta manchevole del suo appoggio, monco. Così come questa cerimonia. Doveva essere una celebrazione solo religiosa, senza morti. Doveva essere a Rieti. Invece sono ventotto le bare disposte davanti all’altare, ad Amatrice. Per questi ventotto, i funerali li paga lo Stato. Lo dicono i preti, riuniti in una sacrestia di plastica dalle finestre trasparenti. Guardando dentro si vede il coro provare i canti, i sacerdoti prepararsi alla vestizione. Chi di funerali di vittime di terremoto se ne intende parla di mancanza di drammaticità, troppe poche bare per un funerale solenne. All’Aquila era tutta un’altra cosa. Eppure la lettura dell’elenco delle 231 vittime laziali dura comunque otto minuti.

Gli amatriciani li hanno difesi questi funerali, i loro morti dovevano essere qui e sindaco e governo hanno acconsentito nonostante le difficoltà logistiche che ora, sotto la pioggia, sembrano ancora più dure. Eppure qualcuno si domanda il senso di questa celebrazione. Perché ad alcuni parenti che chiedono di sistemare la foto di una vittima già tumulata, i preti rispondono no.

A chi prova a sedersi nelle prime file gli organizzatori rispondono che quello é il posto dei cinquanta della schola cantorum, mentre i cari dei defunti restano in piedi sotto la pioggia. Persino la stampa, numerosissima, lavora con la testa coperta mentre i vigili del fuoco che per giorni hanno scavato tra le macerie, e ora vengono a portare un ultimo saluto alle vittime che hanno estratto, restano sotto le gocce. E intanto c’è chi cammina da solo vicino alla zona rossa: i morti e le ferite di Amatrice per alcuni si celebrano meglio in sordina. Per altri si ricordano appendendo un cartello con la scritta “Forza Amatrice” sul cancello di una casa terremotata.

Dal pulpito ammonisce il vescovo di Rieti Domenico Pompili: “La ricostruzione non sia dunque una querelle politica o una forma di sciacallaggio”. E poi ancora: “Non é il terremoto che uccide, uccidono le opere dell’uomo”. Infine ricorda: “Non ti abbandoneremo, uomo dell’Appennino. L’ombra della tua casa tornerà a giocare sulla natia terra”.

A fine cerimonia, dopo il saluto di imam e vescovo ortodosso, arriva il discorso del sindaco-mister che parla alla sua squadra, sconfitta ma non vinta. Sergio Pirozzi indossa la giacca e la fascia tricolore e con la voce roca e il viso bruciato dal sole mette fine alla polemiche di questa lunga giornata: “Questa gente é morta perché amava questa terra e vuole rimanere qui”. Applaudono ora gli amatriciani, e qualcuno grida “bravo”. Il vescovo lo abbraccia e lui si abbandona alle lacrime.

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