CALTANISSETTA. Prima degli interrogatori, suggerivano le dichiarazioni. Dopo, le aggiustavano. Un funzionario di polizia e due sottufficiali – simboli dell’antimafia in terra di Sicilia – sono accusati di aver costruito ad arte il pentito fantoccio Vincenzo Scarantino, la gola profonda che prometteva di svelare tutti i segreti della strage in cui morirono il procuratore aggiunto Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta. La procura di Caltanissetta ha chiuso l’indagine sul colossale depistaggio che ha tenuto lontana la verità per tanti anni e si appresta a chiedere un processo per il dottore Mario Bo, oggi in servizio a Gorizia, per l’ispettore Fabrizio Mattei e per Michele Ribaudo (all’epoca era agente scelto).
E’ la prima volta che uomini delle istituzioni vengono messi sul banco degli imputati per i misteri che ancora avvolgono le indagini sulla strage di via d’Amelio, avvenuta a Palermo il 19 luglio 1992. L’anno scorso, era stato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella a lanciare un appello per la verità: «Troppe sono state le incertezze e gli errori – aveva detto al Csm – e tanti gli interrogativi sul percorso per assicurare la giusta condanna ai responsabili di quel delitto». Parole che raccoglievano l’amarezza dei figli del giudice Paolo.
«Sono stati buttati via 25 anni a costruire falsi pentiti con lusinghe e con torture», ha detto Fiammetta Borsellino davanti alla commissione parlamentare antimafia. «Ci vorrebbe un pentito nelle istituzioni». Ma nessuno ancora ha infranto il muro dell’omertà. I magistrati non si sono arresi.
La procura di Caltanissetta, oggi diretta da Amedeo Bertone, ha fatto un lavoro certosino in questi anni. Prima, ha svelato il grande imbroglio, scagionando nove innocenti, grazie alle rivelazioni del pentito (vero) Gaspare Spatuzza, lui e non Scarantino aveva rubato la Fiat 126 trasformata in autobomba. Poi, è stato istruito il processo ai veri esecutori della strage (i mandanti di mafia erano già stati individuati). Adesso, si apre il capitolo del depistaggio di Stato. I tre poliziotti sono accusati di calunnia dal sostituto procuratore Stefano Luciani e dai procuratori aggiunti Gabriele Paci e Lia Sava. E ci sarebbe stato anche un altro imputato nella lista, ma è deceduto nel 2002: è l’ex capo della squadra mobile di Palermo Arnaldo La Barbera, che coordinava il gruppo di indagine “Falcone-Borsellino” sulle stragi del 1992. In un primo tempo, era stata invece archiviata la posizione di Bo e di altri due funzionari, Vincenzo Ricciardi e Salvatore La Barbera. Ma le indagini sono andate avanti.
- I VERBALI AGGIUSTATI
«Mi davano i verbali con degli appunti scritti a penna», ha raccontato Scarantino. «Mi facevano studiare anche il libro di Buscetta, che spiegava le regole dell’affiliazione a Cosa nostra e altri argomenti che non conoscevo». Dopo gli interrogatori con i magistrati, i tre poliziotti tornavano dal falso pentito, per fare il punto sulle contraddizioni emerse nei verbali. Erano sempre tante. Venivano corrette nelle successive audizioni. «Nessuno cercava conferme alle mie parole – ha accusato ancora Scarantino – bastava che facessi i nomi. Mi veniva detto: “Tu dichiara questo e stai tranquillo”. E se c’erano dei dubbi sulle cose da dire ai pm, sarebbe bastato chiedere di andare in bagno. Lì, avrebbe trovato i poliziotti a suggerire. In un altro caso, Bo sarebbe intervenuto con modi sbrigativi quando Scarantino annunciò la sua ritrattazione con un’intervista a Studio Aperto: nel giro di poche ore, il pentito fu convinto a ritrattare la ritrattazione. I tre indagati si difendono, negano qualsiasi pressione e fanno capire che era il superpoliziotto La Barbera l’unico vero dominus dell’indagine Scarantino.
- I MISTERI CHE RESTANO
Ma davvero la spaventosa macchina delle menzogne fu solo iniziativa dell’ex capo della squadra mobile La Barbera e di alcuni suoi fedelissimi? Davanti alla commissione antimafia Fiammetta Borsellino ha chiesto che si faccia luce anche sui magistrati che si occuparono del caso. Durante il nuovo processo Borsellino, il quater, il pentito Scarantino ha chiamato in causa l’allora sostituto procuratore Anna Palma, ma sono rimaste accuse generiche, che non hanno portato all’apertura di un fascicolo (competente è la procura di Catania).
Un’altra questione: cosa avrebbe spinto validi investigatori a mettere in piedi questa grande messinscena? L’ipotesi dell’inchiesta di Caltanissetta è che La Barbera sia stato spinto da una smodata ansia di trovare un colpevole a tutti i costi.
Ma la strage Borsellino è ancora un buco nero: non sappiamo chi rubò l’agenda rossa del giudice nell’inferno di via d’Amelio; e neanche Spatuzza conosce il nome del misterioso uomo che il giorno prima della strage caricò la 126 di esplosivo, nel garage di via Villasevaglios 17, poco distante dal luogo dell’attentato. Si continua a indagare. I pm di Caltanissetta stanno cercando di dare un nome anche a un altro uomo del mistero, «l’amico che mi ha tradito», confidò in lacrime Paolo Borsellino ai suoi giovani colleghi Massimo Russo e Alessandra Camassa. Era l’inizio di luglio.
C’è poi il mistero del dialogo fra il pentito Santino Di Matteo e
la moglie, avvenuto dopo il rapimento del figlio, il piccolo Giuseppe, poi strangolato e sciolto nell’acido. Era il dicembre 1993. La donna parlò di «qualcuno della polizia» che era «infiltrato». Faceva riferimento alla strage Borsellino, disse che aveva paura. Chi era l’infiltrato? E perché il capo della Mobile Arnaldo La Barbera era anche a libro paga dei servizi segreti? Anche questo hanno scoperto i magistrati di Caltanissetta.