Alla fine dello scorso maggio, Enzo Alliegro, professore associato di discipline demo-etno-antropologiche dell’università di Napoli Federico II, ha ricevuto dalla Procura di Brindisi un avviso di garanzia con riferimento all’occupazione dei binari della stazione ferroviaria di San Pietro Vernotico, in cui si ipotizza il concorso nel reato di interruzione di servizio pubblico per aver partecipato alla pianificazione dell’azione di disturbo. Alliegro, che stava compiendo una missione di ricerca in Salento ufficialmente registrata dal suo ateneo, è ritratto in una foto prodotta dalla Digos, mentre, al di fuori dei binari, con macchina fotografica e taccuino, segue i manifestanti che protestano per la vicenda della Xylella e del taglio degli olivi. Il professor Alliegro, che si è formato tra l’altro presso il prestigioso Istituto universitario europeo di Fiesole, non era nuovo a questo tipo di indagini di campo, avendo studiato anche i comitati di opposizione nella cosiddetta Terra dei fuochi campana applicando lo stesso metodo di inchiesta, particolarmente utile per comprendere le ragioni della protesta e le posizioni espresse dai diversi attori.
La vicenda Alliegro ha spinto l’Associazione nazionale universitaria degli antropologi culturali (Anuac) e le altre associazioni del settore, come l’Associazione italiana per le scienze etno-antropologiche (Aisea), la Società italiana di antropologia applicata (Siia) l’Associazionae italiana di sociologia (AIS) a chiarire che l’osservazione partecipante è, a pieno titolo, una metodologia di ricerca riconosciuta sul piano internazionale, uno strumento di fondamentale rilevanza e del tutto insostituibile nella pratica del lavoro scientifico antropologico, così come ribadito anche nelle mozioni approvate dai consigli del Dipartimento culture, politica e società dell’università di Torino e del Dipartimento di scienze sociali dell’università di Napoli.
Nel caso di Alliegro, la macchina giudiziaria è all’avvio, e potrebbe fermarsi qui, con danno limitato, inducendo soltanto qualche interrogativo sullo zelo, o l’automatismo, con il quale la foto della polizia è stata interpretata come notitia criminis.
Tuttavia, da una parte, a causa dello specifico tipo di relazioni che si sono venute costruendo tra giurisdizione, specie penale, e mezzi di comunicazione, in Italia l’avviso di garanzia è già uno stigma, soprattutto per certe categorie sociali, tra le quali i professori universitari. Il messaggio potrebbe essere (è già?): il professor Alliegro è un militante eversivo, che ammanta la sua azione sotto le spoglie della ricerca. Un sospetto di comportamento poco etico, che, per chi svolge il mestiere di ricercatore, è tra i peggiori.
D’altra parte, non è detto che finisca qui. Nel caso di Roberta Chiroli, una studentessa autrice di una tesi di laurea magistrale in Antropologia culturale, etnologia e etnolinguistica presso l’università Ca’Foscari di Venezia sul movimento valsusino contro l’altra velocità, il processo, innanzi al Tribunale di Torino, è arrivato alla condanna in primo grado a due mesi di reclusione per concorso in violenza aggravata e occupazione di terreni, poiché la Chiroli avrebbe preso parte attiva, e non con l’animus di ricercatrice, a una manifestazione avvenuta nel giugno 2013. Ora, in questa circostanza i fatti sono meno univocamente valutabili che nel caso Alliegro. E potrebbe darsi che la studentessa abbia effettivamente tenuto una condotta penalmente rilevante. Però intanto inquieta il fatto che, nello svolgimento del processo, come prova del concorso nel reato, sia stata addotta la circostanza che l’autrice, nella tesi di laurea poi effettivamente redatta e discussa, ha usato il “noi partecipativo” che implicherebbe una “identificazione” con le ragioni e le proteste del movimento No Tav: la modalità retorico-espositiva starebbe a significare che ella ha “partecipato” da militante e non “è stata presente” da studiosa. Se questo fosse tutto (v’è da augurarsi che non lo sia), sarebbe davvero poco per qualificare come reato la “condotta esterna” della Chiroli: la “condotta esterna”, non i convincimenti intimi, che, allo stadio cui è pervenuta la nostra civiltà giuridica, non possono essere certo oggetto di valutazione penale.
Questi due casi ci dicono molto sui rapporti tra giurisdizione penale e scienza.
Da una parte confermano quel protagonismo pervasivo della giurisdizione penale, che è fenomeno generale, in certa misura derivante da un’esigenza di supplenza indotta dalla “debolezza della politica”. Dall’altra, manifestano un atteggiamento di svalutazione nei confronti delle scienze e delle loro logiche interne, che il magistrato penale potrebbe ritenere estranee all’universo dei suoi giudizi e considerare ininfluenti nei suoi percorsi argomentativi. Talvolta questa non permeabilità può pervenire a un vero è proprio antiscientismo, tanto più per le discipline che assumono a proprio oggetto la politica o la società e le sue dinamiche.
Non è quindi certo il caso di fare paralleli impropri con il caso Regeni, un ricercatore torturato e ucciso mentre conduceva i suoi studi
e a causa di essi: in una dittatura feroce come quella egiziana, questa è stata solo una delle forme di oppressione praticate in modo generalizzato e sistematico. Certo è però che, nella regressione autoritaria dei sistemi politici, tra le prime a cedere è la libertà di scienza. Quando questa corda molto sensibile risuona in modo disarmonico, come nei due casi richiamati, è immediatamente chiamata in causa la nostra tensione civile, oltre che culturale.