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Prisca Taruffi: “Tutti i segreti della Volpe Argentata”

Lug 1, 2016

Negli anni ’30 e ’50, quelli in cui mio padre Piero Taruffi ha maggiormente corso, fare il pilota era una missione. Non c’erano Team manager, copiloti professionisti, nutrizionisti, personal trainer, al massimo un direttore sportivo, un amico, la famiglia al seguito.

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Mio padre particolarmente pignolo, da buon ingegnere aveva creato il “Team Taruffi” così composto: mia zia Fernanda cuciva drappi colorati su manici di scopa che rappresentavano bandiere per segnali convenzionali: rossa che significava “forzare”, verde per “tutto bene” e bianca che invitava al rallentamento. Nel frattempo mia nonna Emma, sgombrava il lungo tavolo della cucina per far posto a tutto ciò che mio padre preparava per la corsa. Mio nonno Pompeo, suo primo tifoso, aveva rimediato un paio di briglie di cavallo e le stava trasformando in cinture di sicurezza poichè mio padre era da sempre convinto che per andare più forte bisognava sentirsi ben ancorati al sedile di guida. Il “Team Taruffi” con il tempo aveva messo a punto e migliorato anche il sistema rilevamento dei tempi con mia madre sempre in pole position: un normale orologio per prendere il tempo di inizio gara ed un cronometro sdoppiante per calcolare il tempo sul giro ma soprattutto il distacco dall’avversario che precedeva o seguiva la vettura da corsa della Volpe Argentata.

Un altro trucchetto escogitato da mio padre per riuscire a stare in scia alle vetture più potenti, era quello di costruire e montare un piccolo parabrezza in retina metallica posizionato su quello già esistente, in modo da ripararsi da sassi e polvere sollevata dall’auto che lo precedevano. Anche il suo casco semirigido color argento per via del soprannome “Volpe Argentata” che gli diedero causa i suoi precoci capelli bianchi, veniva corredato da occhiali di vari colori multistrato che venivano sostituiti nelle brevissime soste dei controlli orari delle gare su strada che poi divennero gli attuali rally.

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A quei tempi non esisteva l’abbigliamento ignifugo rigorosamente omologato Fia a disposizione dei piloti di oggi, quindi mio padre per difendersi dal forte calore emanato dai potenti ed immensi motori di allora come il 12 cilindri della Ferrari 315s, aveva escogitato alcuni stratagemmi: da un calzolaio di fiducia, aveva fatto inserire una soletta in amianto all’interno degli stivaletti neri in pelle che utilizzava per correre; per non ferirsi le mani con il cambio e gli immensi volanti privi di servosterzo, aveva rinforzato i guanti in pelle di camoscio nei punti critici. Infine per proteggersi dal fuoco, prima di indossare un paio di pantaloni di cotone semi pesante, li faceva immergere da mia madre in un liquido particolare imbevuto con polvere ignifuga.

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Dato che pilotare le vetture di quei tempi era molto faticoso ed impegnativo, mio padre che corse fino all’età di 50 anni, in mancanza di un personal trainer, costruì sul terrazzo di casa una piccola serra con un vogatore, una bici e vari attrezzi tra cui delle molle in ferro per rafforzare i polsi dato che le vetture di allora non disponevano di servosterzo. Sotto la tuta d’allenamento indossava un pantalone plastificato per sudare meglio e così bardato si tuffava imperterrito nella serra casalinga con temperatura media oltre i 40°. Mia madre temeva per il suo cuore ma era da sempre rassegnata ai voleri di mio padre come le alzatacce alle quali era costretta in occasione delle ricognizioni delle gare su strada più importanti. A quei tempi a differenza degli attuali rally, non esistevano i cosiddetti “muletti” e quindi si era costretti a provare il percorso di gara con l’auto di famiglia che nel caso di mio padre, da sempre innamorato della Lancia, era un’Aurelia B20 o una Lancia spider. Poche soste, tanto lavoro, al massimo ci si fermava in un bar di passaggio per un cappuccino con 4 paste (papà era un goloso innato). Come oggi, il pilota dettava una prima stesura di note al copilota, in quei casi mia madre per poi correggerle nei successivi passaggi e riportarle in bella copia su di un taccuino personale gelosamente custodito.

Ad un certo punto mio padre cedeva il volante a mia madre e si posizionava sul sedile posteriore per osservare al contrario l’uscita di quelle che definiva “curve chiave” ovvero quei tratti di strada che precedevano un lungo rettifilo e che se impostate in velocità potevano fargli guadagnare secondi preziosi. Gli ultimi passaggi venivano effettuati a velocità crescente per simulare al massimo la velocità di gara. Infine di notte c’era il ripasso generale ad alta voce soprattutto dei tratti più impegnativi. Allora molti piloti come Stirling Moss, usavano correre accompagnati da meccanici-copiloti che utilizzavano rulli (anche di carta igienica) dove erano disegnate curve, scalate e riferimenti importanti. Insomma una sorta di radar dei giorni nostri. Mio padre per quell’ultima Mille Miglia volle partire in solitario evitando una zavorra in più. La sua memoria era il suo radar. Infondo di Mille Miglia ne aveva già fatte 12 ed era l’unica gara che mancava al suo strepitoso palmares di corse su strada. Purtroppo vinse quell’ultima edizione funestata dal terribile incidente di De Portago dove morirono diverse persone tra cui anche dei bambini.

Quando tagliò il traguardo non sapeva ancora di aver vinto, fu Donna Isabella ad annunciargli la vittoria. “Non farmi scherzi da prete” ribadì mio padre incredulo. “Hai visto che una volta tanto non sono rimasto per strada”. Finalmente la grande promessa fatta a mia madre fu mantenuta e mio padre appese il casco al chiodo. Correva l’anno 1957, la fine delle corse su strada e soprattutto della Mille Miglia corsa leggenda che non si ripeterà mai più. Poi nascono i Rally ma sono un’altra storia, un’altra epoca che in parte ho vissuto ma non potrò mai dimenticare l’emozione di aver guidato quella stessa Ferrari 315s con la quale mio padre disse addio alle corse.

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