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Petrolio, Opec e Russia “difendono” l’accordo per sostenere i prezzi

Nov 29, 2017

MILANO – Petrolio, non ci sono alternative: i paesi produttori sono a un passo dal trovare un nuovo accordo per limitare le estrazioni di greggio. Così da non fermare al corsa al rialzo dei prezzi, con il barile tornato sopra i 60 dollari ai massimi degli ultimi due anni. E allontanandosi sempre più dal minimo storico dei 25 dollari che aveva portato al collasso i conti pubblici di più di un paese emergente.

A Vienna, fra poche ore, fa in scena la riunione dei paesi Opec, lo storico cartello dei principali paesi produttori guidati dalle monarchie del Golfo, allargata alla Russia: proprio in virtù dell’accordo con il Cremlino, sarà possibile arrivare non tanto a un nuovo accordo, quanto al prolungamento di quello precedente. Ma al mercato tanto basta: l’importante è che venga ribadito che la produzione non dovrà superare i 32,5 milioni di barili al giorno, il limite fissato nel novembre di un anno fa, poi prolungato fino al marzo 2018. Perché i prezzi si mantengano agli attuali livelli, gli investitori si aspettano che il contingentamento delle quote di produzione venga allungato di almeno di altri 6-9 mesi.

Per quale motivo tutti gli analisti sono convinti che non ci siano alternative? Perché l’interesse a mantenere i prezzi attorno ai 60 dollari conviene a tutti. A cominciare dall’Arabia: la strategia saudita di abbassare i prezzi, aumentando la produzione, per mettere fuori gioco economicamente i produttori di shale oil americano (il petrolio estratto dalle rocce) non ha funzionato. Gli Usa hanno quasi raggiunto l’autosufficienza e solo pochi operatori sono falliti a causa dei prezzi bassi. Più che altro lasciando i debiti in mano alle banche come consente il diritto fallimentare americano e ripartendo da capo con nuovi giacimenti. Non solo: ora i sauditi hanno bisogno che i prezzi salgano perché questo aiuterebbe assai la quotazione in Borsa della società di stato Aramco.

Fondamentale sarà l’accordo con la Russia, il terzo produttore al mondo di petrolio, dopo Arabia Saudita e Usa. Il crollo dei prezzi di due anni fa a 25 dollari al barile a quasi costretto al default della casse del Cremlino. Costringendo il governo di Vladimir Putin a una politica di austerità che poteva anche rompere il patto sociale con la maggioranza dei cittadini russi che sostengono l’ex agente del Kgb. Siccome il bilancio statale russo si basa in maniera preponderante sulla vendita di materie prime, Puti ha agito su due fronti. Sul gas naturale, ha rinforzato i legami con l’Europa aumentando le vendite ma ha aperto nuovi mercati a Oriente, progettando nuovi gasdotti con la Cina e l’india, ma anche con il Giappone. Sul petrolio, è arrivato all’accordo per la limitazione delle quote con l’Opec. Anzi, diventandone l’ago della bilancia: senza il Cremlino è impossibile arrivare alla limitazione delle quote in maniera significativa.

Per non parlare della convenienza dei paesi che in questo momento si fronteggiano su fronti militari: non direttamente, ma foraggiando e armando i belligeranti come fanno l’Arabia e il Qatar, oppure l’Iran. Magari non si parlano a livello diplomatico, ma gli emissari delle società petrolifere si tengono in costante contatto. Con un unico obiettivo: non fermare la corsa dei prezzi.

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