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Perché l’idea erronea di un rabbonimento del virus non ci aiuterà

Gen 27, 2022

I miei lettori riconosceranno in un recentissimo editoriale su Nature alcune delle cose che, da tempo, vado ripetendo insieme a chi si sforza di riportare il dibattito pubblico nell’alveo della correttezza e del rigore scientifico, senza usare parole e concetti fatti apposta per indurre illusioni rosee, destinate a infrangersi contro la realtà e quindi a far perdere ulteriormente credibilità alla comunità scientifica, ivi inclusi quella maggioranza di suoi membri innocenti che non si lasciano tentare dalla voglia di condizionare a proprio piacere l’opinione pubblica. Vale la pena di riportare brevemente quanto questo editoriale riafferma, nella speranza che a forza di ripetere certe cose ci si immunizzi nei confronti delle prossime fantasticherie parolaie che potrebbero arrivare. 

Leggiamo insieme, quindi: “La parola ‘endemia’ è diventata una delle più abusate della pandemia […] Una malattia può essere endemica, diffusa e mortale. La malaria ha ucciso più di 600 mila persone nel 2020. Dieci milioni si sono ammalati di tubercolosi nello stesso anno e 1,5 milioni sono morti. Endemia certamente non significa che l’evoluzione abbia in qualche modo addomesticato un agente patogeno in modo che la vita torni semplicemente alla ‘normalità’”.

 

Ecco, non si potrebbe dire meglio: parole come omoplasia ieri, ed endemia oggi sono usate come talismani verbali per indicare sempre lo stesso traguardo, quello di un rabbonimento del virus che doveva essere clinicamente morto nell’estate 2020, ma che evidentemente non si lascia uccidere dal latinorum. E a proposito di tendenze inevitabili al rabbonimento, continuiamo a leggere da Nature: “C’è un roseo e diffuso concetto erroneo, cioè che i virus si evolvano nel tempo per diventare più benigni. Non è così: non esiste un esito evolutivo predestinato che spinge i virus a diventare più benigni, in particolare quelli come Sars-CoV-2, in cui la maggior parte della trasmissione avviene prima che il virus causi una malattia grave”.  

 

Questo pregiudizio ritorna infallibilmente nel caso di ogni variante, con effetti paradossali quando a fare certe dichiarazioni sono gli scienziati: una breve panoramica include dichiarazioni periodiche come quelle fatte giusto prima dell’esplosione della più pericolosa variante, la Delta. Certo, è ben possibile che una variante poco pericolosa diventi così competitiva rispetto a ogni altra, da proteggerci da quelle più letali; ma la cosa è tutta da vedersi, e in ogni caso gli effetti possono comunque provocare gravi crisi, come sta accadendo con Omicron per le note ragioni legate alla sua estrema diffusività.

 

Ora, dobbiamo abituarci a pensare che non abbiamo bisogno di illusioni e venditori di oppio per convivere con un patogeno. Le cose possono andare molto meglio, certo, ma vi sono delle condizioni imprescindibili. La prima è quella di non rifugiarci nei sogni, lasciando perdere raffreddorizzazioni, virus clinicamente morti, omoplasie, endemizzazioni, adattamenti inevitabilmente positivi, ciondoli e altri ammennicoli mentali, rimanendo invece attaccati ai dati e ai rimedi che abbiamo, senza fare scappatelle cognitive nell’isola dei lotofagi e chiedendo a chiunque usi termini strani di dar conto con fatti documentati del suo latinorum. La seconda è quella di comprendere che smettere di vivere per paura di morire è semplicemente impossibile, e che distruggendo le nostre società e le nostre economie avanzate si ottiene, alla lunga, esattamente lo stesso risultato di una pandemia incontrollata, ivi inclusi i morti, perché un sistema economico che non si sostiene e una società che si blocca crollano, e con essi la nostra sanità. Avanti, dunque, illuminando quanto possiamo con la scienza il pericolo che abbiamo davanti, senza chiudere gli occhi e senza inventare nuovi significati per vecchie parole.

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