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Paolo Galli: “Cinque mesi tra le rovine sulle tracce del terremoto”

Gen 24, 2017

ROMA – Dal solleone alla bufera di neve. Era il 24 agosto quando Paolo Galli e la sua squadra si precipitarono dalle vacanze ad Amatrice colpita dal sisma. E c’è voluta la neve oggi per fermarli un attimo, 49mila scosse e 40mila chilometri più tardi, percorsi in auto e a piedi all’interno di un cratere sismico di cento chilometri di lato. “L’abbiamo attraversato in lungo e in largo, 460 fra paesi e frazioni, visitati fino a sei volte dopo ognuno dei terremoti più forti. Il nostro lavoro è registrare la gravità dei danni agli edifici e gli effetti delle scosse sul suolo” spiega il coordinatore della squadra di rilievo macrosismico del Dipartimento di Protezione Civile e dell’istituto Igag del Cnr.

Quante scosse vi siete presi?

“Non saprei, ormai siamo assuefatti. A volte vediamo la gente fuggire urlando negli abbigliamenti più strani. Da lì ci accorgiamo che c’è stata un’altra scossa”.

Il vostro lavoro è più faticoso, rischioso o doloroso?

“Più doloroso. Molti di noi frequentano quelle zone da quando erano studenti. L’Appennino centrale è la palestra in cui si formano molti giovani geologi. Durante decenni di rilievi abbiamo dormito in quelle case, incontrato quelle persone, imparato a conoscere ogni borgo come le nostre tasche. E dopo le scosse siamo spesso i primi ad arrivare, fra gente che piange, sviene, maledice, si dispera”.

Il momento più brutto?

“Tiziana Lo Presti era nostra collega alla Protezione Civile. Sapevamo che il 24 agosto aveva dormito a Saletta, frazione di Amatrice. Abbiamo provato per ore a telefonarle per sapere com’era la situazione. Poi siamo arrivati di fronte alla sua casa in macerie. A Saletta abbiamo dato il grado XI della scala Mercalli. Distruzione totale”.

Voi avete mai rischiato?

“Quando ci addentriamo nei vicoli, durante le scosse, uno va avanti e gli altri gli guardano le spalle. Se sentono un terremoto gli urlano per farlo tornare indietro. A Frontignano, qualche giorno fa, ci siamo trovati nella bufera di neve a meno 7 senza vedere oltre la punta del naso. In quel momento ho ripensato a mio padre nella ritirata di Russia”.

Che strumenti usate?

“Caschetto, macchina fotografica, quaderno di campagna, un tablet con i dati dell’Istat sulle abitazioni che andremo a monitorare, bussola, gps, carta geologica, metro e martello. Sta tutto in uno zaino, per poter raggiungere a piedi le zone impervie”.

E la gente che incontrate?

“C’è chi sente la terra tremare mentre è al bar e scherza con gli amici: questa era da due, no da tre. C’è chi ha i nervi a fior di pelle e si fa prendere dal panico per un nonnulla. Ma soprattutto gli abitanti di questi paesi sono stanchi, sfibrati da una sequenza che sembra non avere mai fine. Alcuni, come a Norcia, hanno visto tanti sismi ed è dal ’79 che sono in ballo. Altri, pur vivendo in una delle zone più pericolose d’Italia, non avevano idea dell’esistenza del rischio sismico. Chi ha ristrutturato la casa negli anni ’80 e ’90 in alcuni casi ha peggiorato la situazione, aggiungendo tetti pesanti di cemento armato su pareti in ciottoli o pietra. Strutture che le soprintendenze spesso chiedono di non alterare per ragioni storiche”.

La tanto temuta faglia di Campotosto passa sotto alla diga del Rio Fucino?

“Secondo una nostra ricerca del 2003 passa a qualche centinaio di metri dalla diga. Ma noi abbiamo studiato la faglia solo sul terreno emerso. Non sappiamo nulla del percorso sotto al lago”.

Svuotare il bacino e diminuire il peso sopra alla faglia rischia di renderla meno stabile?

“Non credo che influisca molto. Il volume dell’acqua del lago è di vari ordini di grandezza inferiore rispetto ai volumi di roccia che gravano sulla faglia, e la rottura del sisma avviene a 10 chilometri di profondità”.

Perché conosciamo tanto poco di quelle faglie, eppure sarebbe così importante?

“Abbiamo iniziato la loro mappatura intorno agli anni 2000. Alcune sono silenti, storicamente non hanno mai dato terremoti e non possiamo sapere se sono sul punto di riattivarsi. La faglia del Monte Vettore era così, si è risvegliata adesso. Per tracciarne il percorso partiamo in genere da foto aeree, poi cerchiamo le loro tracce sul terreno e alla fine, se è il caso, scaviamo una trincea lunga 10-20 metri e profonda 3-5. Datando i campioni di suolo col radiocarbonio riusciamo a ricostruire la storia dei movimenti di queste faglie, e piano piano a disegnare una mappa della tettonica del sottosuolo. È un lavoro iniziato con la nostra generazione di geologi. Io per esempio ho fatto la tesi di laurea su Sulmona”.

Questi sismi hanno reso visibile la faglia in superficie, spaccando addirittura il terreno.

“Scavammo la trincea nella piana di Castelluccio nel ’98, riuscendo a farci un’idea del percorso sotterraneo della faglia. Dopo le scosse del 24 agosto e del 30 ottobre siamo tornati lì. Percorrevamo una strada di montagna, perché la provinciale era franata. Quando abbiamo incontrato la spaccatura nel terreno esattamente dove avevamo previsto vent’anni fa abbiamo avuto un bel soprassalto. Una faglia che si spacca fino alla superficie, aprendo il suolo per 25 chilometri come è avvenuto sul Monte Vettore, era una cosa che in Italia non vedevamo dall’Irpinia nel 1980”.

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