• 29 Marzo 2024 3:24

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Once Upon a Time in Hollywood, la recensione

Set 14, 2019

Quando un artigiano della pellicola ti abitua a godere di una poesia in movimento, di un’autorialità tale da crescere conturbato da determinate scene viste al cinema, o anche a casa negli anni successivi, è naturale aspettarsi ogni volta un lavoro sopraffino, che ti dona quel brivido che attraversa l’intera schiena e ti fa vibrare le sinapsi. Per questo da Once Upon a Time in Hollywood (C’era una volta a Hollywood) ci si aspettava un’altra grande dimostrazione dell’esegesi di Quentin Tarantino, uno dei più estrosi registi e più completi sceneggiatori dell’ultimo ventennio cinematografico. E invece, in maniera del tutto inaspettata, soprattutto a fronte della grande aspettativa che si riponeva nel film, l’eroe dello stallo alla messicana degli anni 2000 stravolge anche le previsioni e ci fa dono di un film nel quale sveste i panni di sopraffino dialoghista per vestire quelli di arrogante regista, che con dovizia di inquadratura specifica a più riprese una cosa: lui può, e allora fa.


Il dietro le quinte di Hollywood

Once Upon a Time in Hollywood (C’era una volta a Hollywood) è un film nel film: il metacinema è il padrone della scena per quasi tutte le tre ore di durata della pellicola, che stavolta non si fregia di quel vezzo stilistico dei 70mm che furono di The Hateful Eight, e la storia raccontata ha come inevitabile scenario proprio quelle colline verdeggianti e ancora non del tutto condizionate dallo sfarzo e dalla ricchezza dei giorni nostri quali Hollywood. Vivere a Los Angeles non significa affittare una casa e camminare per le strade della città degli angeli, ma possedere un’abitazione ed essere effettivamente sulla cresta dell’onda. È da questo concetto che parte la crisi di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), che sente il suo essere un attore in decadenza dopo aver spopolato nella scena western degli anni ’50. Accanto a lui c’è Cliff Booth (Brad Pitt), amico, galoppino, ma soprattutto suo stuntman. La crisi esiste anche per lui, in quella che è una coppia esplosiva nei bar e nei locali, meno sul set.


A pochi passi da questo scenario, molto più decadente di quanto si possa pensare, nella Los Angeles del 1969 inizia a prendere piede il regno del terrore messo in piedi dalla Famiglia Manson, che finì per realizzare uno dei più efferati crimini della storia del cinema uccidendo, senza alcuna remora, Sharon Tate, la moglie di Roman Polanski, all’epoca incinta del figlio del regista polacco. Nel film di Tarantino, la moglie bionda dell’autore di Rosemary’s Baby è interpretata da Margot Robbie, la più grande delusione dell’intera pellicola. Al di là del suo ruolo che scimmiotta le vedette americane dell’epoca, votate al divertimento genuino e mai a quello esasperato, Sharon Tate nelle mani del regista americano è forse il primo personaggio femminile che fallisce: siamo anni luce lontani dal carisma di Mia Wallace, di Black Mamba o anche dalla presenza a schermo di Shosanna Dreyfus. Non ha colpe la Robbie, ma le ha la sceneggiatura di Tarantino in Once Upon a Time in Hollywood (C’era una volta a Hollywood) che – come già detto – stavolta cede ampiamente il passo alla regia.

Una coppia esplosiva, che si dà il cambio

L’intero film procede verso la conclusione naturale raccontando delle situazioni che ci mostrano il mondo di Hollywood negli anni ’60: Rick Dalton si alterna abilmente tra il vero film e i western che deve interpretare, chiamato a performance spesso anche lontane da quello che ambirebbe a realizzare, ma che è costretto a fare per non sparire dalle scene. In alcuni sparuti momenti si sente la mano di Tarantino nei dialoghi che DiCaprio – eccezionale in tutta la durata del film, in quei suoi modi sopra le righe, da attore in decadimento e molto combattuto all’interno – intrattiene con alcuni comprimari dei suoi film, a partire da uno scambio con una bambina, raccontando le triste vicende di Easy Breeze. Guardarlo in lingua originale, ovviamente, aumenta la bontà del lavoro dell’autore, che viaggia con il freno a mano tirato per gran parte della sua pellicola.


Quello che non manca, però, è l’abilità nel realizzare un personaggio come quello di Cliff Booth: Brad Pitt è forse il vero mattatore di tutto Once Upon a Time in Hollywood (C’era una volta a Hollywood) pur non essendo la star del cinema, anzi il galoppino che è odiato dalla maggior parte dello star system e trascorre le sue giornate a scarrozzare qui e lì Rick Dalton. Cliff però è un personaggio pienamente tarantiniano, condannato a una vita di azione e non di pensiero, sregolata ma a modo suo, tanto da aver avuto l’ardire di sfidare in combattimento il temutissimo Bruce Lee. A Pitt è dato il compito di gestire gran parte dei momenti comici, tutti perfetti, impeccabili, ben dosati e che riescono a conquistare – senza doverle necessariamente strappare – più di un paio di risate di gusto, dal sapore di puro intrattenimento. Perché Tarantino d’altronde è sempre stato questo: il sangue, anche abbondante, la violenza, ma l’ironia e l’umorismo, anche e soprattutto. Di sangue ce n’è davvero tanto, perché Cliff non si trattiene mai, tantomeno dinanzi agli odiati hippie, di violenza ce n’è altrettanta e quindi, a riprova del fatto che dalle proprie origini non si scappa, c’è anche tanta ironia e tanto umorismo.

Una finestra su Los Angeles

Si è detto, però, di un film più da regista che da sceneggiatore da parte di Tarantino. È giusto quindi indicare il distinguo vincente che ci porta a compiere questa valutazione: i precedenti otto film del regista americano, sfrenatamente appassionato degli spaghetti western, raccontavano storie di personaggi fenomenali, ai quali ci siamo inevitabilmente affezionati perché assorbiti dalle loro personalità e dalle loro vicende. Tutti avevano quel qualcosa che li conduceva dritti al cuore dello spettatore per la loro semplicità e genuinità, tutto abilmente inanellato da una sceneggiatura che faceva dei dialoghi e delle parole il cavallo di battaglia di Tarantino. Basti pensare a The Hateful Eight e allo stallo che la seconda metà del film realizza nella baita che fa da ultimo rifugio prima della morte per congelamento, o anche a Le Iene, o perché no ai discorsi che sono proprio di Brad Pitt in Bastardi senza Gloria, per non dover scomodare nuovamente DiCaprio in Django. Nel nono film di Tarantino manca proprio questo: è assente la frase sensazionale, il tocco di classe che ci porterà, un domani, a ripetere fino alla nausea l’Ezechiele 25:17 di turno.


In compenso, però, registicamente Tarantino realizza una perla cinematografica alla quale non si può non dare il giusto peso. Stavolta ci troviamo dinanzi a un quadro degli anni ’60 realizzato con dovizia e con grandissima attenzione ai dettagli: l’indugiare sulle ricostruzioni sceniche, il voler ingannare lo spettatore facendogli credere di aver realizzato un film in quegli anni che racconta, è un progetto riuscito. Il lavoro di costumi, di trucco, di ricostruzione di una Los Angeles di più di cinquant’anni fa, l’esaltazione di tutti i divertissement di Tarantino, che non si tira mai indietro dall’esaltare le proprie passioni, rappresentano un ottimo lavoro registico, che ricorda a chi se lo fosse dimenticato quale pregevole artigiano della macchina da presa ci sia in America. Tra un ironizzare sugli spaghetti western e il rifiuto del cedere al cinema italiano, quello che invece il regista adora e al quale anela nel quotidiano, Once Upon a Time in Hollywood (C’era una volta a Hollywood) ci conduce fino all’inevitabile finale, che lascia allo spettatore le interpretazioni possibili, dicendogli anche che, però, non importa: è stato quel quadro che ci è stato mostrato ad averci conquistato, non quello che accadrà dopo.


Quentin Tarantino con Once Upon a Time in Hollywood (C’era una volta a Hollywood) ci regala una sola scena à la Tarantino, quella finale, ma il suo nono film non riesce a entrare nella top 5 della sua carriera. Non siamo dinanzi a un film brutto e mai ci permetteremmo di dirlo, perché come già specificato ci troviamo dinanzi a un lavoro registico di pregio e di fino, ma che soffre dell’assenza di una sceneggiatura ai livelli ai quali siamo stati abituati. È tutto un gioco di aspettative e del volersi aspettare con forza un risultato pari, se non superiore, a quello che ci è stato mostrato in precedenza. È allo stesso modo chiaro, per la maggior parte della durata del film, che il desiderio di Tarantino adesso è uno solo: realizzare un vero western. E il suo ultimo, decimo film potrebbe essere il momento giusto ed esatto per soddisfare le proprie esigenze e le proprie volontà. Magari con un remake de Il buono, il brutto, il cattivo. Noi adesso andiamo a riguardare Pulp Fiction.

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