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‘Ndrangheta, 20 anni all’avvocato De Stefano: “Era ai vertici della cupola”

Mar 2, 2018

La ‘ndrangheta ha una propria direzione strategica in grado di determinare tattiche e linee di intervento per l’organizzazione tutta. E i suoi uomini adesso hanno un nome e un volto. Per i giudici di Reggio Calabria, l’avvocato Giorgio De Stefano, ex consigliere comunale Dc e noto penalista, cugino del noto boss Paolo De Stefano, è uno degli uomini di vertice della “cupola” della ‘ndrangheta e per questo dovrà scontare 20 anni di carcere, il massimo della pena nel procedimento con rito abbreviato. Così ha deciso ieri il giudice Pasquale Laganà di Reggio Calabria al termine del maxiprocesso “Gotha”, con una sentenza destinata a fare storia nel contrasto alle mafie in Italia. Per la prima volta è stato affermato non solo che la ‘ndrangheta è un’organizzazione unitaria, ma anche piramidale e gerarchicamente ordinata, dotata di un livello superiore e strategico che si colloca al di sopra dell’ala prettamente organizzativa e militare e che a questa detta la linea.

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Si tratta di un passo avanti fondamentale, destinato ad avere riflessi importanti sui processi in corso in Calabria, come su quelli aperti in tutta Italia che riguardano non solo la ‘ndrangheta, ma tutte le mafie storiche. La “cupola” riconosciuta ieri dalla sentenza è infatti quella che sarebbe stata chiamata in causa e ha deciso per tutta l’organizzazione in occasione dei grandi – e spesso sanguinosi – interventi delle mafie tutte nella storia d’Italia, come la stagione degli attentati continentali. Ma è anche il livello che tuttora stabilisce le macrostrategie economiche e finanziarie in Italia e all’estero, individua, recluta e struttura i massimi referenti al di fuori dell’organizzazione, ma che della ‘ndrangheta diventano strumento, come l’ex senatore Antonio Caridi, per questo a processo con rito ordinario.

Per anni i pentiti ne hanno parlato, definendola ‘ndrangheta “invisibile” o “di sostanza”, ma quella emessa ieri sera dal giudice di Reggio Calabria è la prima sentenza che riconosce l’esistenza della Santa, pietra angolare della ‘ndrangheta moderna e radice dell’impero costruito dai clan e che oggi ha estensioni e ramificazioni mondiali. “Ogni verità, anche quella processuale dico io, passa attraverso tre fasi: prima viene ridicolizzata, poi è violentemente contestata, infine viene accettata come ovvia” aveva detto, citando Shopenhauer nel corso della propria requisitoria il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, che insieme ai pm Stefano Musolino e Walter Ignazzitto ha coordinato l’inchiesta. Una citazione che aveva provocato qualche sorriso di scherno fra i legali, ma si è rivelata profetica alla luce della sentenza di ieri che scatta la fotografia più attuale e precisa della ‘ndrangheta, non solo nel suo storico territorio di origine, ma in quelle che sono le complesse, articolate, numerosissime propaggini operative in Italia e nel mondo.

Quella che emerge è una struttura complessa, che si è evoluta nel tempo anche grazie– hanno svelato l’ex Gran maestro Antonio Di Bernardo e pentiti come Cosimo Virgiglio – alla progressiva contaminazione con la massoneria. Un processo iniziato quanto meno quarant’anni fa e servito per creare una camera di intermediazione e incontro fra il potere mafioso e chi gestisce le leve istituzionali, economiche, politiche e finanziarie dell’Italia.Tutte strutture individuate al termine di un lavoro lungo oltre dieci anni e costruito su decine di inchieste, che mattone dopo mattone, hanno permesso di comprendere che “la ‘ndrangheta non finisce a Polsi”, dove l’ala militare della ‘ndrangheta converge per il summit annuale, fotografato dall’operazione Crimine. “Lì – ha spiegato Lombardo – la ‘ndrangheta inizia, non finisce”. Ma il lavoro di ricostruzione – dicono in maniera chiara i magistrati di Reggio Calabria – ancora non è concluso.

L’avvocato Giorgio De Stefano, condannato ieri come uno dei massimi esponenti della ‘ndrangheta tutta è solo uno degli elementi della cupola. Un altro avvocato, l’ex deputato del Psdi Paolo Romeo è a processo per lo stesso motivo, ma ha scelto di essere giudicato con il più lungo e complesso rito ordinario e per lui si attende ancora la sentenza. Ma nel medesimo livello di vertice, secondo una conversazione intercettata, formato da sette persone, ci sarebbero anche altri uomini, da cercare – è stato spiegato anche nel corso della requisitoria – tra gli esponenti delle famiglie che da sempre sono ai vertici dei tre mandamenti in cui la ‘ndrangheta si divide: i Piromalli per la zona tirrenica, i De Stefano-Tegano per Reggio città, i Nirta- Scalzone (la Maggiore) per la Jonica. Sono stati loro ad “avvertire la necessità di trasformare l’organizzazione di tipo mafioso, in una multinazionale del crimine organizzato. Non ieri, ma nel corso degli anni ’70” hanno spiegato i pm. E di quell’intuizione ne godono ancora i frutti, perché è la cupola oggi ad avere la prima e l’ultima parola sulle grandi strategie di tutta l’organizzazione. Ma i suoi uomini solo di rado, come dimostra la parabola dell’avvocato Giorgio De Stefano, agiscono in prima persona.

Il legale – ha spiegato Lombardo – “è una grande intelligenza criminale, che ovviamente non solo ha saputo negli anni mutuare il suo ruolo con grande oculatezza, ma è riuscito come solo il grande stratega sa fare, a far muovere gli altri”. E a Reggio Calabria – ha svelato l’inchiesta Gotha e ha confermato la sentenza – c’era un esercito di uomini che si muoveva secondo il volere della “cupola, diversamente strutturati, in parte persino inquadrati in una struttura paramassonica segreta, ma governati tutti dagli stessi pupari e devoti o serventi alla medesima causa: rafforzare i clan. Una “formula” applicata non solo alla politica, ma anche all’economia, alla grande finanza, alla burocrazia, alla società civile. Non a caso ieri il giudice Laganà ha condannato anche soggetti come l’ex sindaco di Villa San Giovanni, Antonio Messina, l’ex cancelliere del tribunale Aldo Inuso, il commercialista Natale Saraceno, l’imprenditore Angelo Frascati. Tutti uomini di ambienti diversi, ma al servizio degli stessi “pupari”.

In questo modo la cupola strategica della ‘ndrangheta ha scippato a Reggio Calabria il suo futuro per piegarlo a necessità e voleri dei clan. Un piano – eversivo – passato attraverso il condizionamento di tutte le elezioni, dal 2001 al 2010, dal governo dei grandi affari societari e immobiliari realizzati a Reggio Calabria, dall’accaparramento di appalti, lavori e finanziamenti pubblici, anche grazie a strutture e uomini “riservati” che in silenzio e senza discutere hanno attuato senza discutere la strategia decisa dalla “cupola”. L’obiettivo non era solo il controllo – totale e asfissiante – delle principali leve economiche e imprenditoriali cittadine, come il sistema della grande distribuzione, ma anche della gigantesca mangiatoia dei finanziamenti pubblici statali ed europei in arrivo per la costruzione della città metropolitana. Una città Stato in grado di interfacciarsi con strutture simili a livello nazionale e internazionale, da governare tramite politici costruiti allo scopo e già piazzati in posti strategici tanto a Reggio, come in Parlamento e forse a Bruxelles. Un piano eversivo in parte ancora da scoprire.

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