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Minacce e insulti. Quant’è pericoloso per un ricercatore parlare di Covid

Ott 20, 2021

Da quando sono entrato all’università come studente, prima ancora di laurearmi, ho continuamente sentito un ritornello, che torna di continuo anche oggi: i ricercatori, si dice, devono uscire dalla loro torre d’avorio. Devono cioè comunicare con il pubblico, con il cittadino le cui tasse sono usate per finanziare in larghissima parte le loro attività; devono chiarire, devono spiegare, devono comunicare e anche – quando serve – avvertire e aiutare la comunità in cui vivono. La funzione del ricercatore, cioè, non si esaurisce nel laboratorio o nelle aule: uscite dalla torre, ci si dice di continuo, e impegnatevi nella società, obbedendo a quel dovere etico che consiste nel mettere a disposizione ciò che si sa, per migliorare l’esistenza di tutti.

 

Ora, cosa succede se i ricercatori provano a comunicare al pubblico? Certo, molti di loro sono narcisisti e ci prendono gusto. Altri non hanno destrezza e abilità comunicative, e restano incomprensibili. Certo, il pubblico si accorge improvvisamente che, nel caso di fatti nuovi e imprevisti come una pandemia, il consenso scientifico è ben lungi dall’essere garantito, e si forma solo molto faticosamente, con gli scienziati che si producono in antagonismi che lasciano interdetto e confuso il cittadino comune.

   
Ma c’è un aspetto che vorrei qui discutere, una conseguenza di cui forse non si è discusso a sufficienza del parlare al pubblico, quando si è un ricercatore. Allo scopo, utilizzerò un recente articolo di Nature, introducendo il mio punto al lettore a partire dalla stessa storia che in quell’articolo si racconta. La dottoressa specializzata in malattie infettive Krutika Kuppalli, nel settembre 2020, ha ricevuto a casa una telefonata di qualcuno che ha minacciato di ucciderla. Kuppalli aveva già dovuto subire per mesi abusi online dopo aver rilasciato interviste di alto profilo ai media sul Covid-19 e aver testimoniato al Congresso su come tenere elezioni sicure durante la pandemia. Ma la telefonata è stata un’escalation spaventosa. “Mi ha reso molto ansiosa, nervosa e turbata”, afferma Kuppalli, che ora lavora presso l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) a Ginevra, in Svizzera. Poiché le minacce continuavano, Kuppalli si è rivolta alla polizia, ma l’ufficiale di polizia che l’ha visitata dopo una seconda chiamata per minaccia di morte le ha suggerito di procurarsi una pistola.

    
Ora, si potrebbe pensare che il caso di Kuppalli sia isolato; e forse io stesso potrei convincermi che le minacce di morte e di ogni tipo che di tanto in tanto arrivano anche a me, gli insulti e l’odio che si scatenano perché metto a rischio la narrazione di qualche cialtrone che specula su ignoranza, rabbia e scontento, costituiscano nulla più che un caso personale, che, come sappiamo, non significa nulla. Ma Nature ha intervistato oltre 300 scienziati e ricercatori, scoprendo che la diffusione di minacce, insulti, abusi e odio, dovuti al solo fatto di aver esposto dati e teorie in tempo di Covid-19, sono molto più che eccezioni alla regola.

  
Quasi il 60 per cento degli intervistati ha ricevuto attacchi volti a minarne la credibilità, una cosa di per sé sgradevole ma niente a che vedere con le minacce di violenza fisica o sessuale che hanno colpito oltre il 20 per cento degli intervistati o delle minacce di morte che hanno raggiunto il 15 per cento degli intervistati. Senza contare che, nel 2 per cento dei casi, si è passati ai fatti, e le minacce si sono trasformati in assalti e atti violenti contro i ricercatori.

 

Ora, campagne di odio coordinate contro gli scienziati, specialmente sui social, non sono una novità, se si pensa a quanto successo in passato per temi quali ogm, vaccini, clima (e, nel caso del sottoscritto, persino su temi di interesse più limitato come la Xylella). Il punto è che fra gli scienziati intervistati da Nature anche quelli precedentemente esposti hanno riportato nel caso della pandemia livelli di violenza verbale e fisica mai prima toccati. Naturalmente, molti colleghi stanno semplicemente decidendo di non parlare più pubblicamente, come mostra l’indagine di Nature, ma la politicizzazione di certi temi, come l’uso dell’ivermectina, sta provocando un livello di attacco mai prima sperimentato, così che una volta che si è nel mirino si può essere pesantemente disturbati per mesi. Anzi, come mostra proprio l’articolo appena pubblicato, proprio il tema delle cure inventate o non provate è quello che attira i maggiori strali sui ricercatori e posso testimoniare che lo stesso accade da noi.

  
Dunque, vogliamo che i ricercatori parlino in pubblico e lo possano fare senza costrizioni? Oppure è meglio la torre di avorio? E non mi si venga a dire che ci sono colleghi che abusano della comunicazione: è vero, ma non è questo il tema.
 

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