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Mercati, ecco perché il voto italiano fa meno paura. Ma su debito e riforme manchiamo di credibilità

Feb 10, 2018

MILANO – Un meccanismo elettorale favorevole ai mercati, perché ha depotenziato il peggior nemico della stabilità amata dalle sale operative (il M5S) e aperto le porte a un governo di coalizione, per quanto sia difficile immaginare oggi i rapporti di forza che usciranno dal voto del 4 marzo. Una Italexit sempre più remota, visto che i sostenitori dell’uscita dall’euro hanno deposto l’arma del referendum, dal dubbio contenuto tecnico ma dall’alto grado di risonanza mediatica.

L’Italia scivola verso le urne, ma non si scorgono quei gravi segnali di tensione che in passato hanno accompagnato altre consultazioni. “C’è un terzo fattore rilevante” che induce a uno sguardo benevolo nei confronti dell’Italia, annota Matteo Ramenghi, Chief Investment Office di UBS WM Italy. “Fino a pochi mesi fa le banche erano in una situazione complessa, alcuni investitori percepivano il rischio di una crisi allargata a molteplici istituti. Gli interventi del governo per la risoluzione dei casi più spinosi hanno contribuito a dare stabilità e a far tornare gli investitori sul mercato italiano”.

La cronaca degli ultimi giorni dice che lo spread tra Btp e Bund, termometro della tensione politica schizzato ai tempi dell’avvicendamento Berlusconi-Monti a 570 punti, si è ridotto fino ai minimi dall’autunno del 2016 in area 120. Se si sono visti profondi scossoni sui mercati finanziari, si devono piuttosto ai timori sulle scelte di politica monetaria della Fed e alla possibilità di innalzamento dei tassi: preoccupazioni che hanno abbattuto Wall Street dai massimi e si sono propagate ai listini globali. In ogni caso, “il quadro macro sta offrendo un ulteriore supporto agli asset italiani, con una ripresa ciclica che continua”, spiega Andrea Iannelli, Investment Director obbligazionario di Fidelity International.

“Detto ciò, sarebbe errato giudicare le elezioni un evento di poco conto. Se guardiamo a come le obbligazioni governative italiane si sono comportate nell’ultimo periodo, è evidente come il rischio politico sia stato già scontato dagli operatori”, annota Iannelli. Ancor più significativo, concordano i due esperti, è il raffronto con la Spagna: “Oggi il mercato richiede lo 0,5% di rendimento in più per prender rischio Italia piuttosto che rischio Spagna, e ciò è largamente imputabile alle elezioni”, spiega Iannelli.

Ragionando di quel che sarà dal 5 marzo, da Ubs a Credit Suisse, passando per l’agenzia di rating Dbrs, gli osservatori danno per favorito un Parlamento appeso, che dovrebbe spalancare le porte a una Grande coalizione centrista. In subordine, si trovano gli scenari con una coalizione meno forte in grado solo di produrre una legge elettorale, una vittoria del centro-destra sufficiente a governare o la necessità di nuove elezioni. I diversi scenari rispecchiano tutto sommato la scala di preferenze degli investitori, che vedono nel modello tedesco la migliore garanzia per la prosecuzione delle politiche di disciplina fiscale e rapporto costruttivo con l’Ue. Fino ad ora non sono state prese sul serio le promesse che sono fioccate in campagna elettorale, che interpretate alla lettera valgono un impatto da 200 miliardi sui conti pubblici. “Il tema delle coperture finanziarie di queste promesse dovrà diventare centrale, se i candidati vorranno renderle credibili”, commenta Ramenghi. “Siamo un Paese con un debito pubblico troppo importante per poter concepire una strategia di crescita basata sul deficit: lo manderebbe fuori controllo. Invece, sfruttando le condizioni favorevoli di oggi – ripresa ciclica e tassi bassi – c’è un’opportunità da cogliere di fare rientrare il debito, con il giusto mix di strategie orientate alla crescita e rigore della finanza pubblica”.

Il fardello del debito, meritoriamente richiamato da autorevoli osservatori ma fuori dai radar dei partiti, resta la variabile dolente che può impazzire. Con il suo peso al 130% del Pil rischia di tornare a farci pagare un conto salato, per quanto le scadenze si siano allungate e ora un aumento dei tassi – rispetto agli anni Novanta – ci metterebbe anni per far salire il costo complessivo. Più che alle pensioni degli italiani o alle misure per i loro figli, i grandi investitori guardano comunque all’equilibrio di questi rapporti finanziari: “Oggi paghiamo tassi allineati al Portogallo. Se la disciplina fiscale dovesse venire meno, diverremmo ancora più marginali e in caso di uno shock sui mercati finanziari – anche indipendente dalla nostre vicende – saremmo i primi a soffrirne”, sintetizza Ramenghi.

Al netto di una possibile volatilità nei pressi del voto, o all’emergere via via di sondaggi più chiari, gli esperti ricordano che la Bce è ancora presente sui mercati con il suo programma di acquisto dei titoli (una quarantina di miliardi al mese, si stima, tra acquisti diretti e reinvestimenti di bond in scadenza), sufficiente a stemperare le tensioni. Certo, se si dovesse tornare al voto dopo l’estate la musica potrebbe essere diversa, visto che la fine del Quantitative easing è prevista per settembre e Mario Draghi avrebbe meno armi per venirci in soccorso.

Quel che rischia di restare in pugno agli italiani, fuori dai giochi dei mercati finanziari, è l’amara considerazione di Oxford Economics, che vede negli scenari post-voto il grande rischio di una “occasione persa” e che – in un modo o nell’altro – non si riuscirà a tenere insieme le misure per ridurre il debito e rilanciare la produttività. Due elementi di cui l’Italia avrebbe bisogno come il pane, ma pare fingere di non accorgersi che la finestra buona per agguantarli prima o poi si chiuderà.

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