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L’ultima miniera: Nuraxi Figus può sopravvivere per cercare la materia oscura

Ott 25, 2016

GONNESA (CARBONIA-IGLESIAS) – L’ascensore scende a cinquecento metri di profondità in una manciata di minuti. È veloce, sembra quasi precipitare. Nella gabbia metallica le lampade frontali agganciate ai caschi saettano sugli occhi dei minatori e sulle pareti di roccia scura. Gli sguardi seri di sempre. Dopo le chiacchiere in superficie ai piedi del “castello” di lamiera gialla, ora nella discesa regna il silenzio delle voci, un rito laico che si è ripetuto immutato per oltre un secolo in queste cattedrali della civiltà industriale. Uomini che scendono nelle viscere della terra per lavorare.

L’ascensore finisce il suo viaggio verticale dove inizia il labirinto di trenta chilometri di gallerie scavate nel carbone. L’ultima miniera italiana, a Nuraxi Figus nel Sulcis, si fermerà definitivamente tra due anni, come deciso dall’Unione europea che ha fatto i conti con l’evoluzione delle fonti energetiche e con le riserve di carbone disponibili. E insieme alla miniera sarà chiuso il “buco nero” che a partire dal secondo dopoguerra ha inghiottito montagne di soldi pubblici e i sogni di benessere di un intero territorio. Ma Nuraxi Figus non sarà “tombata”, dicono nel loro gergo i minatori come pronunciando una bestemmia. Proverà a trasformarsi, a diventare qualcos’altro. Cercherà di sopravvivere a se stessa e all’epopea leggendaria di questo fazzoletto di terra sarda, ricamato da decine e decine di vecchie miniere ormai chiuse.

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È il patto, o forse sarebbe più giusto chiamarla scommessa, tra chi si cala nelle profondità del pianeta. Carbosulcis, l’azienda della Regione Sardegna proprietaria della miniera, e l’Istituto nazionale di fisica nucleare che in uno dei 4 pozzi principali del giacimento (a Seruci) realizzeranno il “Progetto Aria”: l’installazione di una torre pilota che “infilata” in 400 metri di profondità dovrà consentire la separazione delle componenti fondamentali dell’aria.

Come l’argon- 40 essenziale alla ricerca della materia oscura portata avanti dall’Infn nei laboratori sotto il Gran Sasso, o come l’ossigeno-18 e il carbonio-13 utilizzati nello screening medico e nelle tecniche diagnostiche per la lotta al tumore.

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“A ben vedere con l’Istituto ci accomuna questa discesa nel sottosuolo – spiega l’amministratore unico della Carbosulcis, Antonio Martini – . Loro ci vanno per sfuggire i raggi cosmici, noi ci siamo sempre andati per estrarre qualcosa”. E dopo Nuraxi Figus, gli scienziati del Gran Sasso si caleranno forse anche nella miniera inattiva di Lula, in provincia di Nuoro, dove nel silenzio assoluto si può ascoltare il respiro della terra e si possono studiare le onde gravitazionali.

Nelle gallerie e nei pozzi di Nuraxi Figus, invece, oggi non c’è il silenzio assoluto. Circa 170 minatori, distribuiti su vari turni, ancora lavorano all’estrazione del carbone. Niente a che vedere con l’epoca d’oro delle miniere del Sulcis, quando nell’impianto i minatori erano un migliaio e si produceva oltre un milione di tonnellate all’anno. Ma comunque l’avamposto residuo di un mondo destinato a scomparire. Ingegneri minerari (che in realtà ora in Italia si chiamano ingegneri ambientali, perché la facoltà di ingegneria mineraria non esiste più), periti tecnici, operai.



“Siamo una grande famiglia, c’è un rispetto reciproco assoluto. Molti di noi sono figli e nipoti di minatori”, racconta Efisio che andrà in pensione a dicembre e che non nasconde l’emozione quando parla dei colleghi: “Qui sotto si creano legami che durano per tutta la vita”. Perché quella in miniera, ha scritto Angelo Ferracuti nel libro-inchiesta sul Sulcis (“Addio”), “è stata un’esperienza che andava oltre un lavoro normale, il dazio che si paga alla sopravvivenza. Una specie di misteriosa avventura quotidiana che li strappava alla routine, alla vita banale di tutti i giorni, rendendo quello che facevano memorabile “.

Così, guardi negli occhi gli ultimi minatori che ci accompagnano in questo viaggio sotterraneo e non ti sembrano tanto diversi da quelli del distretto del Borinage in Belgio dipinti da Vincent van Gogh, da quelli francesi di Montsou raccontati da Emile Zola in “Germinale”, dal “Popolo dell’abisso” di Jack London. Li guardi e, con un brivido, ripensi alla tragedia di Marcinelle.

Ingegneri, periti tecnici, addetti ai macchinari: tutti insieme nella nobiltà operaia della miniera. “Io sono tornato da Pisa nel Duemila quando sembrava che l’impianto dovesse rilanciarsi – dice Matteo, quarant’anni, ingegnere anche lui – poi non è successo nulla. Adesso ci sono i nuovi progetti, ma per ora è solo una speranza”.

La speranza è il “Progetto Aria”, soprattutto nella sua parte più “commerciale”, quella che potrebbe dare uno sbocco sul mercato internazionale dei gas rari utilizzati in medicina. Dopo il protocollo di intesa del 2015 tra Regione e Infn e l’accordo di programma del 2016, gli uomini della miniera hanno predisposto gli interventi in superficie, sistemato le gallerie e verificato l’efficienza del pozzo.

Intanto, a Ginevra, l’Infn sta realizzando e testando la strumentazione dell’impianto che potrebbe essere “calato” nella miniera tra circa un anno e che funzionerà come un gigantesco distillatore. L’operazione costa 18 milioni di euro, poco più di 8 a carico di Regione e Carbosulcis, gli altri in capo all’Infn e all’Università di Princeton (Usa) dove insegna Cristian Galbiati, coordinatore scientifico del progetto.

“Aria fa parte di un insieme di interventi – spiega Martini – che seguendo gradualmente il piano di chiusura dell’impianto, potrebbero garantire un futuro alla miniera. C’è l’attività di gestione della discarica per conto della centrale Enel, in attesa di conferma; il progetto di “lisciviazione” del carbone per produrre fertilizzanti; il progetto sulla cattura dell’anidride carbonica; le possibili iniziative in campo energetico. Inoltre ci occuperemo per altri dieci anni della bonifica e del recupero ambientale del sito.

In fondo, Nuraxi Figus potrebbe trasformarsi in un polo di ricerca con laboratori e attività collegate, salvaguardando le risorse umane e professionali rappresentate dal centinaio di persone che, a miniera chiusa, lavoreranno ancora qui”. “Stiamo traghettando l’industria della Sardegna in un’altra era”, aggiunge l’assessore regionale Maria Grazia Piras.

Appunto, quel centinaio di minatori che, terminati gli ultimi pensionamenti, si ritroveranno tra un paio d’anni nel vuoto e nel silenzio della miniera. Ingegneri e operai con un’età media di quaranta anni. Molti di loro cercano di guardare con ottimismo alla riconversione, altri non nascondono lo scetticismo (“La ricerca non porta occupazione. Il governo oltre che all’Alcoa doveva pensare anche a Carbosulcis”).

Nelle parole di tutti però si coglie la sottile nostalgia per una cultura condannata inesorabilmente a scomparire. “Ci piange il cuore a lasciare giacimenti di carbone non coltivati” dice il direttore della miniera, Paolo Podda, che conosce come fossero le sue vene ognuna delle gallerie, ogni pozzo. Mentre parla, una macchina infernale perfora la roccia. Intorno gli altri ingegneri e gli operai si scambiano impressioni e indicazioni operative con frasi brevi, come in una lingua misteriosa. Podda ci porge un pezzo di carbone che risplende alla luce della lampada: è più leggero dell’apparenza, sembra una suggestione. Una piuma nera destinata a volare via nell’oscurità della miniera.

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