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La minaccia della variante indiana

Giu 23, 2021

È ora di fare il punto su ciò che conosciamo riguardo la variante delta di SARS-CoV-2, nota anche come “indiana”. Cominciamo dai dati più solidi, quelli cioè revisionati dalla comunità scientifica o comunicati insieme alle analisi corrispondenti da istituzioni scientifiche di rilievo. Si tratta di un mutante emerso probabilmente alla fine del 2020 in India, che raduna 13 mutazioni della proteina Spike, molte delle quali precedentemente note per poter conferire maggiore infettività e sospettate di conferire una certa capacità immunoevasiva.

Secondo l’ultimo rapporto del PHE (Public Health England), oltre l’80% dei casi di nuova infezione in Inghilterra, i quali sono di nuovo cresciuti fino a quasi 10.000 al giorno, sono ormai dovuti alla variante delta; nel campione di infezioni più recenti, si arriva al 91%.  Inoltre, nello stesso rapporto si specifica con livello di confidenza indicato come alto che l’infettività del virus è maggiore anche della precedente “variante inglese”.
Sempre con livello di confidenza alto, si afferma nel documento che i dati provenienti da Scozia e Inghilterra indicano una minore efficacia dei vaccini (Pfizer e AstraZeneca) nel prevenire l’infezione sintomatica, con una perdita di attività del 15-20% dopo la prima dose e una perdita più ridotta (circa il 10%) dopo due dosi; non sono noti dati circa la trasmissibilità da soggetti vaccinati. L’efficacia complessiva della vaccinazione con AstraZeneca nel prevenire l’infezione sintomatica è risultata pari a circa il 60% e quella di Pfizer a circa 88%.

Infine, in uno studio su 14.019 casi di infezione da parte della variante delta, di cui 166 finiti in ospedale, sempre il PHE ha dimostrato infine che sia il vaccino AstraZeneca che quello Pfizer mantengono un’ottima capacità di prevenzione del ricovero ospedaliero, rispettivamente pari al 96% e al 92%; questo non ha impedito che, nel complesso, fra i nuovi casi di ospedalizzazione inglesi vi sia un 10% di infetti dalla variante delta, i quali sono risultati positivi oltre due settimane dopo la seconda dose di vaccino.

In buon accordo con quanto trovato dal punto di vista epidemiologico, uno studio pubblicato su Lancet ha dimostrato come il titolo di anticorpi neutralizzanti utili contro la variante delta, con una sola dose di vaccino Pfizer, è fortemente diminuito, tanto che gli autori scrivono esplicitamente che l’eventuale beneficio del ritardo di una seconda dose ritardata – la famosa scommessa inglese – deve essere riconsiderato (ah, Darwin, Darwin). Soprattutto, nello stesso studio si trova che età più avanzata e tempo trascorso dalla vaccinazione correlano anche dopo la seconda dose con una minore presenza di anticorpi neutralizzanti; un risultato atteso, che può spiegare la buona difesa dalle ospedalizzazioni, ma solo parziale dalle infezioni.

A fianco di questi dati revisionati e affidabili perché provenienti dalla comunità scientifica, vi sono le analisi riportati dai quotidiani che seguono nel mondo l’avanzata della variante delta. Un’analisi dei dati di sequenziamento disponibili, effettuata dal Financial Times utilizzando un metodo sviluppato dal professore di biostatistica Tom Wenseleers dell’Università di Leuven, ha mostrato che, circa una settimana fa, la variante delta rappresentava oltre il 95% dei casi di nuova infezione in Inghilterra, Russia e Portogallo; la stessa analisi ha mostrato per il nostro paese che la variante, contrariamente a quanto finora comunicato da ISS, potrebbe rappresentare il 26% dei casi di nuova infezione; visto il cluster di casi di infezione da variante delta appena scoperto a Piacenza, e considerata la scarsissima copertura del sequenziamento italiano, forse l’analisi pubblicata dal Financial Times non è così lontana dal vero. 
 

In Israele, si stanno osservando focolai di nuove infezioni con variante delta a partire dalle scuole; l’incremento di 125 casi recentemente registrato è il più alto da tempo, e fra gli infetti circa un terzo erano soggetti vaccinati completamente con Pfizer. In Portogallo, a fronte di un 25% di abitanti pienamente vaccinato e di un 42% che ha ricevuto almeno una dose, la variante delta è responsabile di una ripresa epidemica: a Lisbona, in particolare, è stato superato il numero di 240 infezioni ogni 100.000 abitanti in due settimane, soglia che ha fatto scattare i preparativi negli ospedali (per il momento ancora non sottoposti a stress).

In Russia, dove solo il 13% dei cittadini è vaccinato, la variante delta sta provocando un’esplosione di casi, ospedalizzazioni e morti a Mosca, con il sistema sanitario già in forte difficoltàIn Francia, si osservano i primi focolai di variante delta nelle scuole e nel sud-ovest. In tre settimane, la variante delta è passata dal costituire lo 0.5% dei casi al 2-4%, il che significa che in tre settimane è aumentata da 4 a 8 volte la sua prevalenza.
Negli Stati Uniti, ove la variante delta costituisce ormai il 14% degli isolati fra i nuovi infetti, ci si aspetta una risalita dei casi giornalieri a luglio; considerando la copertura vaccinale ancora insufficiente, gli scienziati di quel paese stanno suonando l’allarme.

Dai dati risulta che la variante delta si propaga il 40% più velocemente di quella inglese, a sua volta del 50% più infettiva del ceppo originario di Wuhan; dunque, rispetto ad un anno e mezzo fa, abbiamo di fronte un virus che è circa del 90% più infettivo, ed è certamente tutto fuorché clinicamente morto, se guardiamo agli ospedali che si riempiono nei paesi a basso tasso di vaccinazione come la Russia.
Questa infettività è documentata non solo dall’epidemiologia, ma pure dallo studio di singoli casi; un esempio in particolare dimostra la possibile alta contagiosità (dico possibile perché per ora siamo a livello di case studies, non di analisi rigorose). Dall’osservazione dettagliata dei filmati delle telecamere di sicurezza in un negozio australiano, si è osservata la trasmissione da un caso indice a due contatti occasionali, vicini per qualche decina di secondi al soggetto originariamente infetto, in assenza di mascherine.

Ecco perché in Inghilterra, da fine maggio al 7 giugno si è osservato un tempo di raddoppio della variante delta di 11 giorni e un Rt pari a 1.44; questo nonostante due terzi degli Inglesi siano vaccinati con almeno una dose, e quasi la metà con due dosi (circa 82% e 60% della popolazione adulta).

Bene; fermiamoci per un attimo a considerare cosa significa per noi in Italia questo insieme di dati e di notizie, tanto quelli che originano dalla comunità scientifica, quanto quelli che si riferiscono alla cronaca epidemica mondiale.

A cosa dobbiamo prepararci?

Assumiamo uno scenario ottimistico, quello dell’Inghilterra, con la sua popolazione molto maggiormente coperta. Con un Rt e un tempo di raddoppio “inglesi” (quindi molto ottimistici), partendo da una prevalenza attuale della variante delta intorno al 5%, entro luglio completeremo la transizione, e avremo praticamente tutti i nuovi infetti dovuti alla variante delta. Questo, considerando che la popolazione inglese ha pressappoco le dimensioni di quella Italiana, significa che nella seconda metà di luglio – forse prima – possiamo aspettarci una ripresa importante dei casi di infezione in Italia. In correlazione con questa ripresa, cresceranno di nuovo le ospedalizzazioni: non a causa di quel 10% di individui vaccinati che si trovano fra gli ospedalizzati inglesi, ma a causa del fatto che il numero di individui non vaccinati è in Italia molto più alto, e per di più è nell’ordine dei milioni fra gli ultrasessantenni.

Abbiamo quindi una assoluta necessità: vaccinare i soggetti più vulnerabili nel tempo che abbiamo – forse due o tre settimane – prima che sia troppo tardi, perché quei soggetti necessitano di essere coperti da due dosi, per essere al sicuro, e durante il tempo necessario la variante delta si propagherà certamente. Per guadagnare tempo, intralciando l’espansione del virus, abbiamo anche bisogno di un piano per cercare di isolare i primi focolai dovuti alla variante delta, che seguiranno quello di Piacenza; e per cercare e isolare dobbiamo subito cominciare ad aumentare la capacità di tracciamento mediante tampone e di test genetico, il che è fattibilissimo, se solo si decidesse di far decollare la famosa rete di sequenziamento nazionale più volte annunciata (e poi abbandonata al miglioramento dei parametri epidemiologici). Usiamo i vaccini, prima che anche da noi, come prevede il primo ministro inglese, si debba cominciare a paventare un altro duro inverno.

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