CARO direttore, ho deciso di raccontare ciò che mi è successo in modo da poter condividere la mia esperienza. Nel 2002 mi viene diagnosticata la sclerosi multipla. Dopo le terapie sono stata meglio e per anni ho continuato a fare il mio lavoro con impegno e dedizione in un asilo nido della provincia di Torino. La malattia ha convissuto con me, ma non mi ha mai impedito di fare la mia vita tra viaggi, studio, amore e lavoro. Convissuto sì, perché per anni ho deciso che il problema poteva e doveva non ostacolare la quotidianità di una persona di circa 45 anni.
Non essendo su una carrozzina ho potuto scegliere con chi condividere la mia malattia.
La malattia è un dato sensibile e la persona ha il diritto di scegliere come e quando informare gli altri.
Il datore di lavoro, una piccola cooperativa sociale, non faceva parte di coloro che erano informati del mio stato.
Come dicevo prima sapevo di poter lavorare come gli altri, spesso facendo più e, senza presunzione, meglio degli altri perché si ha bisogno, anche emotivamente, di dimostrare di potercela fare.
Ma essendo una persona anche molto pratica sapevo che nel momento in cui avessi rivelato la mia diagnosi al datore di lavoro le cose sarebbero cambiate in peggio per me e purtroppo, da come sono andate, non mi sono sbagliata.
Nel 2015 tornano a farsi sentire molti problemi fisici che portano i neurologi a concludere che ci sia stato un aggravamento della malattia. Purtroppo i problemi di deambulazione e la fatica fisica non mi permettono più di essere come prima sul lavoro. Così informo il mio datore di lavoro, il quale mi mette in malattia in attesa di valutazione da parte del medico del lavoro circa l’idoneità/inidoneità parziale o totale alle mansioni lavorative.
Nel frattempo scattano i “gesti di solidarietà” poco sentiti ma necessari in questi casi da parte di alcuni colleghi e del datore di lavoro. Quest’ultimo si è subito “preoccupato” di dirmi anche che non avendo altre mansioni cui adibirmi sarebbe stato praticamente impossibile ricollocarmi, a prescindere dall’esito del referto del medico.
Io ero a casa preoccupata sia perché questa volta non vedevo miglioramenti con le terapie sia per il mio futuro lavorativo che stava diventando sempre più precario.
In buona fede, confidavo che il mio datore di lavoro si comportasse in modo corretto: non mi interessavano i finti pietismi, semplicemente mi aspettavo una fattiva collaborazione verso un lavoratore che nei suoi confronti è sempre stato corretto, non ha mai creato problemi e ha svolto il proprio lavoro per oltre 15 anni.
Così non è stato. Allo scadere dell’anno di assenza per malattia anziché essere convocata dal medico del lavoro, che avrebbe dovuto redigere un giudizio circa la possibilità o meno di reintegro, magari coinvolgendo il datore di lavoro sulla ripresa almeno di una parte delle mansioni, mi è arrivata la lettera di licenziamento in cui ci si appellava semplicemente al “superamento del periodo di comporto per assenza da malattia”.
E per fortuna non sapevano come muoversi. Lo sapevano benissimo fin dal primo momento, ma la scorrettezza più evidente è come si sono comportati dopo: potevano contattarmi, farmi rivedere dal medico del lavoro, condividere le difficoltà circa un mio ricollocamento. Invece niente di tutto ciò.
Mi sono rivolta a sindacati e avvocati ma mi è stato detto che non si può far nulla: una volta scaduto l’anno di malattia, il datore di lavoro ha il diritto inappellabile di licenziare senza che io abbia la possibilità di fare ricorso.
Così mi ritrovo con le mie lauree, l’esperienza lavorativa maturata, alle soglie dei 50 anni privata di un diritto perché il datore di lavoro ha dei diritti che valgono più dei miei, più di quelli di un disabile.
Tutto ciò merita alcune considerazioni: cosa vuol dire essere disabile in Italia?
La sensibilità inizia e finisce secondo me quando c’è qualche campagna da sponsorizzare per le raccolte fondi o per far emergere eccellenze nello sport nonostante l’handicap.
Ma nel quotidiano cosa resta degli slogan e delle belle parole? A chi è disabile non resta nulla a parte le battaglie quotidiane.
Un disabile non cerca comprensione o le solite parole di circostanza: vuole fare la propria vita in autonomia utilizzando ciò che lo può aiutare a superare gli ostacoli.
Io non sono su una carrozzina, cammino, con difficoltà, ma cammino.
Per la legge sono invalida e sulla carta ci sono delle norme che dovrebbero tutelarmi come la 68/99 concepita proprio per permettere al disabile di avere le stesse opportunità di accesso al mondo del lavoro. Ma nella realtà i principi cui si ispira la legge rimangono sulla carta come dimostra il mio caso. Non solo ho perso la mia occupazione, ma la legge mi dice che non conto nulla in quanto i diritti di un datore di lavoro insensibile (e credo che come lui ce ne siano molti) valgono più dei miei.