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A tu per tu con Costacurta: «Quando Gullit prese Capello per il bavero…»

Ott 22, 2016

Walter Veltroni

sabato 22 ottobre 2016 09:23

ROMA Costacurta ha un’idea bella del calcio, ma più bella ancora della vita. Sa quello che è davvero importante, quello che resta, quello che ti serve per vivere felice. Ha vinto ogni cosa vincibile, ha giocato fino a quarantuno anni, ha segnato un gol a quella veneranda età, ha onorato e amato una sola maglia. E’ stato corretto, o almeno educato, come sua madre gli aveva insegnato. Ha senso di umorismo e, quando parla di calcio, mette allegria: ne parla con passione, ma senza febbre, con competenza ma senza faziosità. Gioca con il calcio, lui che sa che è un gioco. «Io ho cominciato a giocare perché avevo un fratello più grande che mi portava con sé quando andava al campo. Io lo aspettavo seduto, le spalle appoggiate a un muro. Quando mancava qualcuno lui mi faceva un fischio e io mi alzavo a molla. Poi entrai in una squadra dal nome profetico, si chiamava la “Asso”. Ci entrai perché era comodo per mia mamma che accompagnava al campo mio fratello grande, sempre lui, e non sapeva dove lasciarmi».

Com’era la prima maglia di Alessandro Costacurta?

«Granata. La “Asso” era una succursale del Torino, una squadra satellite. Diventò rossonera perché giocammo una partita contro il Milan e io, che ero stato inopinatamente schierato a centrocampo, segnai due gol. In verità, quando cominciai da ragazzo, chiesi di giocare da libero perché avevo frainteso, pensavo che in quel ruolo potevi fare quello che ti pareva. La mia interpretazione letterale non coincideva con quella dell’allenatore che mi disse che non avevo capito nulla e che mi dovevo mettere tranquillo davanti al portiere e non muovermi».

I suoi genitori la seguivano?

«Mio padre era un piccolo imprenditore, commerciava in bilance. Mia mamma faceva la sarta. Papà era spesso all’estero e allora era mamma che mi accompagnava al campo, quando ho cominciato a giocare nella “Asso”. Ma era spesso infastidita dalle urla degli altri genitori, urla che non accettava. Mio padre morì la sera prima della finale del torneo Berretti che dovevamo giocare con la Lazio. Non ha visto tutto quello che mi è accaduto dopo. Penso sarebbe stato orgoglioso di me. Mia mamma mi ha seguito fino alla fine degli anni novanta. Mi ha sempre detto solo una cosa: “Quando fai un fallo, anche brutto, chiedi sempre scusa”. E io ho sempre chiesto scusa. Anche quando quello che lo subiva se lo meritava».

Chi è stato il suo primo allenatore?

«Si chiamava Fausto Braga, parlava solo dialetto milanese, una lingua che mi ha insegnato. Fu lui che mi fece capire il valore dell’allenamento, di una crescita che nasceva dalla fatica e dal sacrificio. Poi maturai con Fabio Capello che allenava la Berretti. Lui curava molto la formazione individuale, la crescita tecnica del singolo. Non è mai cambiato. Mi ricordo, in quegli anni, che nello spogliatoio , durante l’intervallo di un derby, entrò urlando e prese a calci le nostre borse, shampoo e saponi che volavano dappertutto. Quella aggressività l’ha accompagnato sempre. Non abbiamo mai capito quanto fosse reale e quanto invece strumento per tenere il gruppo costantemente sotto pressione».

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