UN mazzo di fiori per lei, una calorosa stretta di mano per lui. Il 5 giugno Dinesh e Tarakeshwari Rathod, coppia di poliziotti sposati da otto anni, sono raggianti. Hanno due buoni motivi. Stanno seduti in una conferenza stampa davanti alle più prestigiose autorità di Maharashtra, fra amici e colleghi, e annunciano di aver coronato un sogno covato fin dall’altare: “Siamo la prima coppia indiana ad aver scalato l’Everest. Felicemente lo annunciamo al mondo. Era il nostro obiettivo da anni e ci siamo detti che se ci fossimo riusciti, avremmo avuto finalmente un figlio”. Un vanto per loro, per l’India, una storia dolce, un’impresa da celebrare appendendo i certificati sopra il letto e le foto ricordo. Peccato che l’unica vetta che sono riusciti a conquistare è quella di una straordinaria falsificazione.
Tutto comincia il 23 maggio quando i due trentenni originari di Pune, appoggiandosi alla Makalu Adventures in Nepal per due settimane, sostengono di essere riusciti in quel giorno a toccare quota 8.848 metri. E’ festa grande. La stessa agenzia, osservando le foto e parlando con gli sherpa, gli rilascia i certificati ufficiali: ce l’hanno fatta e il 5 giugno sarà fissato un evento per commemorare la storica scalata.
Ma a chi mastica il ghiaccio attaccato alla faccia e le fatiche di cotanta impresa quelle fotografie sembravano proprio non tornare. Innanzitutto la luce: i due indiani sostenevano di averle scattate alle 06.25, ora dell’arrivo in cima, mentre le ombra indicano piuttosto riflessi tipici delle undici o poco dopo. Poi i vestiti, dove appaiono con tute differenti: prima rosse e poi arancioni. “Impossibile cambiarsi a quelle quote, troppo freddo e troppa fatica” sostengono gli alpinisti esperti, in tutto otto quelli che poi hanno denunciato la coppia.
Con una denuncia dietro l’altra l’Ente del Turismo del Nepal (di fatto lo stesso che ha certificato l’impresa basandosi sulle immagini) è stato costretto ad aprire un’inchiesta sull’accaduto. Tutto lascia pensare che se confermato, come probabile, ai due verrà ritirato il certificato e potrebbero essere banditi per 10 anni dalle montagne dell’Himalaya.
Anche perché emergono altre accuse simili nel passato di questi due agenti che con le loro gesta sportive si sono guadagnati stima e promozioni. Nel 2014 annunciarono infatti di aver “scalato le 10 vette più alte d’Australia” ai media indiani con tanto di articoli celebrativi. Un gruppo di alpinisti, però, denunciò che non era vero: la coppia aveva approcciato solo cinque vette e poi era tornata a casa. Tant’è che l’agenzia alpinismo australiano si rifiutò di consegnare ai due il certificato.
Ma ad essere sotto accusa non sono solo i coniugi Rathods, è l’intero mondo dell’alpinismo nepalese. Dopo il caso dei due falsificatori, l’Himalayan Times ha realizzato un’inchiesta scoprendo una pratica già denunciata da tempo: molti ”liaison officer” (LO, ufficiali di collegamento) non sarebbero mai stati presenti ai campi base. Si tratta di rappresentanti del governo locale che hanno il compito di sorvegliare che vengano rispettati i regolamenti delle spedizioni e certificare le scalate. Nonostante siano pagati fra i 2 e i 3mila dollari, lo scorso anno quasi il 50% degli ufficiali impegnati in 33 spedizioni non avrebbe mai stazionato al campo base dell’Everest. Il governo nepalese ammette la necessità di rivedere il sistema. E anche senza fotoritocchi o bugie, ci si si chiede ora quanti di quei certificati siano realmente veri e comprovati.