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Veltroni intervista Ferrara: «Io e Higuain stesso destino, storie diverse»

Ott 29, 2016

di Walter Veltroni

sabato 29 ottobre 2016 09:22

ROMA – Ciro Ferrara oggi vive in Cina, dove allena il Wuhan Zall, una squadra in serie B. Il destino suo si è ancora una volta intrecciato con quello di Marcello Lippi che oggi lì è considerato nel calcio come Mao negli anni sessanta. Ferrara è stato un grande difensore: feroce sull’uomo, specialista nel gioco d’anticipo, forte di testa, ottimo di piede. Ha vinto il vincibile in una carriera trascorsa con solo due maglie addosso, le stesse che hanno indossato Sivori, Zoff, Altafini, Mauro, Cannavaro e Higuain. È stato allenatore efficace dell’Under 21, ha conosciuto una delle stagioni più difficili del pre-Agnelli alla Juve e per questo è stato esposto a critiche spesso maramaldesche, tipiche in un Paese che adora sempre gli ultimi vincitori. Alla Samp è entrato in rotta di collisione con la società e così per trovare un calcio meno isterico è andato lontano lontano. Ma, si sa, “La Cina è vicina”. «Ho cominciato anche io in mezzo alla strada, nel cortile di casa, nell’ora del riposino dei grandi. Quelle partite furiose giocate con il rischio che qualcuno in canottiera, svegliato dal sonno, ti bucasse il pallone. Ho giocato in una squadra che portava il nome di un poeta che studiavo sui libri delle elementari, la “Salvator Rosa”. Dopo una parentesi al Grumo Nevano mi prese il Napoli. Ho fatto un anno di allievi e l’anno successivo, sempre con gli allievi, vincemmo lo scudetto nazionale contro la Fiorentina. Per premio, di solito, si portano in ritiro con la prima squadra i ragazzi della Primavera. Quella volta invece scelsero quattro giocatori degli allievi nazionali. Fra questi c’ero anche io. E quindi a diciassette anni, nell’arco di un triennio, mi sono ritrovato in ritiro con la prima squadra del Napoli. Non uno scherzo, era la formazione di Maradona, perché era l’anno in cui è arrivato Diego, luglio ’84».

VELTRONI E TOTTIVELTRONI E COSTACURTA

Lei ad un certo punto ha avuto una malattia, vero?

«Non è proprio una malattia, è praticamente il morbo di Osgood Schlatter che oggi tantissimi ragazzini in fase di sviluppo hanno. È un problema della cartilagine del ginocchio, in modo particolare, e quindi avevo grossi fastidi, se stavo tanto tempo seduto, persino a stendere le gambe, per non dire della attività fisica. Oggi come oggi è un problema di sviluppo, di accrescimento e quindi stai per un periodo fermo e passa. Io invece credo di essere stato l’ultimo ad aver subito un’operazione. Poi mi hanno ingessato tutte e due le gambe, sono stato per un mese sulla sedia a rotelle. Ma non smettevo di giocare al calcio, mio fratello mi lanciava il pallone e io di testa ci davo dentro, con tutta la sedia a rotelle».

Poi si è liberato dei due gessi, come Forrest Gump. Quanti anni aveva?

«Avrò avuto quattordici anni. Non avevo ancora cominciato la mia attività sportiva che già ero fermo».

Mi dice del suo primo incontro con Maradona?

«Il primo incontro è stato il giorno della presentazione di Maradona al Napoli. Noi avevamo vinto lo scudetto da qualche giorno e allora, in occasione della presentazione di Maradona al San Paolo, facemmo una partita amichevole contro un’altra squadra. Maradona premiò noi ragazzi del settore giovanile. Quindi quello è stato il mio primo incontro in un San Paolo strapieno, con sessantamila persone lì ad assistere alla presentazione di Maradona. Io pensavo che fossero venuti per noi allievi ma ho il sospetto che non fosse così. È uno dei ricordi più belli, provi ad immaginare un ragazzino di diciassette anni che si trova davanti a sessantamila persone a giocare e a essere premiato da Maradona. Ma in quel momento io non sapevo assolutamente che dopo pochi giorni mi sarei ritrovato in ritiro con i titolari. Ho saputo della notizia mentre ero in vacanza con i miei genitori, a Gaeta. Ero sulla spiaggia e, ovviamente, giocavo a pallone. Il Napoli mi chiamò allo stabilimento e mi disse che il giorno dopo dovevo presentarmi in ritiro con la prima squadra. Io ero in tutti gli stati, impazzito di gioia».

Mi racconti un po’ com’era Maradona, come persona.

«Lui, pur essendo il numero uno al mondo, non ha mai fatto sentire questo nei confronti dei suoi compagni, che infatti gli hanno sempre voluto bene. Credo che questa sia stata la sua dote più grande: mettersi comunque a disposizione e giocare con giocatori che inevitabilmente erano più scarsi di lui. Ma questo lui non lo ha mai fatto pesare; e poi nei confronti dei ragazzi aveva sempre parole di incoraggiamento. Insomma, ci ha dato un grandissimo aiuto, all’inizio noi ragazzi eravamo molto timorosi e rispettosi nei suoi confronti, ma lui immediatamente ci metteva a nostro agio».

Lei ricorda qualche episodio con lui?

«Quello forse è stato uno degli unici anni in cui è venuto in ritiro, perché, dopo, qualcuno lo ha saltato. Veniva un po’ più tardi, però quelli furono momenti in cui ognuno di noi cercava di capire, di scoprire, di vedere che cosa faceva durante gli allenamenti. Per noi tutti i giorni era una sorpresa perché le cose che gli vedevamo fare erano cose che non avevamo mai visto e il fatto stesso di averlo così a contatto, a stretto contatto, per noi era assolutamente un sogno. Dire che cercavamo di emularlo era impossibile perché quello che lui riusciva a fare con il pallone nessuno di noi era capace neanche di imitarlo».

Oggi giocano Juventus e Napoli che sono le due squadre nelle quali è incastonata la sua vita sportiva. Ci sono tante coincidenze e tanti intrecci: a cominciare dal fatto che il suo esordio è proprio contro la Juventus.

«Sì, il 5 maggio ’85 è la data che resterà scolpita nei miei ricordi. Le volte che ero andato in panchina mi ero anche riscaldato ma non c’era mai stata la possibilità di entrare. Poi improvvisamente capita in quella che è la partita dell’anno, la partita clou per noi napoletani. In quegli anni gli obiettivi non erano grandi obiettivi e quindi battere la Juventus voleva dire tutto. Dopo una ventina di minuti un mio compagno si infortunò e Marchesi mi mandò in campo. Un ragazzino di diciotto anni che entra e deve marcare un certo Boniek… Io non potevo credere ai miei occhi, non potevo credere a quello che mi stava succedendo. Però devo dire che il debutto andò molto bene. Recentemente ho rivisto la partita e mio figlio mi ha detto “papà, andavate a due all’ora”. Marcai Boniek che poi, tra il primo e il secondo tempo, in uno scontro fortuito con il sottoscritto, uscì per una botta alla caviglia».

Leggi l’intervista completa sull’edizione odierna del Corriere dello Sport-Stadio

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