• 25 Aprile 2024 12:52

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Facchetti avrebbe compiuto 80 anni. La figlia: “Era un papà dolcissimo”

Lug 17, 2022

AGI – Dici Giacinto Facchetti e pensi all’eleganza di un campione che ha scritto pagine memorabili di storia del calcio, ma anche alla gentilezza di chi nei modi non ha mai fatto pesare la grandezza della sua carriera. E avrebbe potuto, perchè della Grande Inter di Helenio Herrera lui era una delle colonne, il terzo nome sempre citato nell’elencare gli undici di quella formazione, una specie di filastrocca che iniziava con “Sarti, Burgnich, Facchetti…”. E proprio Herrera, storpiandone il cognome da Facchetti in Scalpelletti, fu l’autore inconsapevole di quello che divenne poi il suo nomignolo per tutti, con i compagni che abbreviando quel cognome sbagliato lo ribattezzarono “Cipe”. E cosi’ fu per sempre.

Il 18 luglio Giacinto Facchetti avrebbe compiuto 80 anni, lui che se ne è andato troppo presto, il 4 settembre 2006 al termine di una lunga malattia, lasciando un grande vuoto in chi lo ha amato: “Conoscendo papà avremmo festeggiato tutti insieme in famiglia a Cassano d’Adda”, ha raccontato la figlia Barbara all’Italpress, “amava cosi’ tanto la sua casa che non cercava mai cose particolari. Per me è stato un papà dolcissimo, molto premuroso, attento e legato alla sua famiglia. Chiamava tre volte al giorno, per darmi il buongiorno, poi a pranzo e a sera per la buonanotte. Una specie di ‘mammo’. Poi nella fase dell’adolescenza è stato anche severo, a volte bastava uno sguardo, anche perchè non alzava la voce, non era una cosa che gli apparteneva”.

Facchetti ha legato il suo nome a doppio filo con quello dell’Inter, l’unica maglia mai indossata nella sua lunga carriera: 18 anni sempre con quei colori addosso, dal 1960 al 1978, per un totale di 634 partite e 75 gol. Vincendo tutto: quattro campionati, una Coppa Italia, ma soprattutto le due Coppe dei Campioni consecutive (1964 e 1965) e le due Coppe Intercontinentali degli stessi anni.

Ha ridisegnato il ruolo del terzino, grazie a un fisico possente e a una corsa da mezzofondista, cosa che lo rendeva capace di grandi recuperi ma anche di incursioni offensive tutt’altro che comuni a quell’epoca, in cui i difensori raramente erano autorizzati a superare la metà campo. Non Facchetti, che anche in attacco ha sempre saputo dire la sua, diventando spesso l’uomo aggiunto, quello che partendo da dietro riusciva a sorprendere le difese avversarie, e i 59 gol messi a segno in Serie A ne sono una dimostrazione. 

“Lui era di tutti, ero orgogliosa di quando gli chiedevano una foto o un autografo – ha raccontato Barbara -. Anche quando è mancato è stato una specie di evento, non immaginavo partecipasse tutta quella gente. C’erano tante bandiere, un grande riconoscimento segno di ammirazione. Per me l’Inter e San Siro erano lui, un legame che mi portero’ dietro per sempre. Il mio cuore batte per l’Inter grazie a lui”.

Ma Facchetti vuol dire anche Nazionale, di cui è stato capitano dal 1966 al 1977 (94 le presenze in azzurro), conquistando l’Europeo del 1968 e il secondo posto al Mondiale di Messico ’70 (ma ha preso parte anche ai Mondiali di Inghilterra 1966 e Germania 1974). Proprio dal ’68 il suo nome è legato a uno degli episodi piu’ curiosi nella storia della Nazionale: dopo la semifinale contro l’Urss, terminata 0-0, il regolamento prevedeva che la finalista fosse scelta attraverso il lancio della monetina.

La procedura fu eseguita nello spogliatoio dell’arbitro tedesco Tschenscher, con Facchetti che tornò esultante sul prato a braccia alzate per aver conquistato la finale (la leggenda narra che scelse “testa”), poi vinta, contro la Jugoslavia. E nel campo del calcio internazionale lavora oggi la figlia Barbara, che dopo aver lasciato il ruolo di team manager della Nazionale femminile, adesso lavora come “Protocol Officer” per l’ufficio del presidente della Fifa: “Ricordo che la notte prima del mio primo giorno di lavoro alla Fifa lo sognai, cosa che non mi capita spesso. Stavo entrando dai tornelli nella sede di Zurigo, e sulla destra c’erano dei tavolini. Mi sentii chiamare, ‘Ba’!’: era lui, vestito con la tuta della Nazionale insieme ad altri giocatori. Sì, credo proprio sia il segno che è il lavoro giusto per me, anche se avrei voluto averlo ancora qui perchè con nessun altro avrei potuto confrontarmi su certi temi. Però penso di essere stata fortunatissima”. 

AGI – Dici Giacinto Facchetti e pensi all’eleganza di un campione che ha scritto pagine memorabili di storia del calcio, ma anche alla gentilezza di chi nei modi non ha mai fatto pesare la grandezza della sua carriera. E avrebbe potuto, perchè della Grande Inter di Helenio Herrera lui era una delle colonne, il terzo nome sempre citato nell’elencare gli undici di quella formazione, una specie di filastrocca che iniziava con “Sarti, Burgnich, Facchetti…”. E proprio Herrera, storpiandone il cognome da Facchetti in Scalpelletti, fu l’autore inconsapevole di quello che divenne poi il suo nomignolo per tutti, con i compagni che abbreviando quel cognome sbagliato lo ribattezzarono “Cipe”. E cosi’ fu per sempre.
Il 18 luglio Giacinto Facchetti avrebbe compiuto 80 anni, lui che se ne è andato troppo presto, il 4 settembre 2006 al termine di una lunga malattia, lasciando un grande vuoto in chi lo ha amato: “Conoscendo papà avremmo festeggiato tutti insieme in famiglia a Cassano d’Adda”, ha raccontato la figlia Barbara all’Italpress, “amava cosi’ tanto la sua casa che non cercava mai cose particolari. Per me è stato un papà dolcissimo, molto premuroso, attento e legato alla sua famiglia. Chiamava tre volte al giorno, per darmi il buongiorno, poi a pranzo e a sera per la buonanotte. Una specie di ‘mammo’. Poi nella fase dell’adolescenza è stato anche severo, a volte bastava uno sguardo, anche perchè non alzava la voce, non era una cosa che gli apparteneva”.
Facchetti ha legato il suo nome a doppio filo con quello dell’Inter, l’unica maglia mai indossata nella sua lunga carriera: 18 anni sempre con quei colori addosso, dal 1960 al 1978, per un totale di 634 partite e 75 gol. Vincendo tutto: quattro campionati, una Coppa Italia, ma soprattutto le due Coppe dei Campioni consecutive (1964 e 1965) e le due Coppe Intercontinentali degli stessi anni.
Ha ridisegnato il ruolo del terzino, grazie a un fisico possente e a una corsa da mezzofondista, cosa che lo rendeva capace di grandi recuperi ma anche di incursioni offensive tutt’altro che comuni a quell’epoca, in cui i difensori raramente erano autorizzati a superare la metà campo. Non Facchetti, che anche in attacco ha sempre saputo dire la sua, diventando spesso l’uomo aggiunto, quello che partendo da dietro riusciva a sorprendere le difese avversarie, e i 59 gol messi a segno in Serie A ne sono una dimostrazione. 
“Lui era di tutti, ero orgogliosa di quando gli chiedevano una foto o un autografo – ha raccontato Barbara -. Anche quando è mancato è stato una specie di evento, non immaginavo partecipasse tutta quella gente. C’erano tante bandiere, un grande riconoscimento segno di ammirazione. Per me l’Inter e San Siro erano lui, un legame che mi portero’ dietro per sempre. Il mio cuore batte per l’Inter grazie a lui”.
Ma Facchetti vuol dire anche Nazionale, di cui è stato capitano dal 1966 al 1977 (94 le presenze in azzurro), conquistando l’Europeo del 1968 e il secondo posto al Mondiale di Messico ’70 (ma ha preso parte anche ai Mondiali di Inghilterra 1966 e Germania 1974). Proprio dal ’68 il suo nome è legato a uno degli episodi piu’ curiosi nella storia della Nazionale: dopo la semifinale contro l’Urss, terminata 0-0, il regolamento prevedeva che la finalista fosse scelta attraverso il lancio della monetina.
La procedura fu eseguita nello spogliatoio dell’arbitro tedesco Tschenscher, con Facchetti che tornò esultante sul prato a braccia alzate per aver conquistato la finale (la leggenda narra che scelse “testa”), poi vinta, contro la Jugoslavia. E nel campo del calcio internazionale lavora oggi la figlia Barbara, che dopo aver lasciato il ruolo di team manager della Nazionale femminile, adesso lavora come “Protocol Officer” per l’ufficio del presidente della Fifa: “Ricordo che la notte prima del mio primo giorno di lavoro alla Fifa lo sognai, cosa che non mi capita spesso. Stavo entrando dai tornelli nella sede di Zurigo, e sulla destra c’erano dei tavolini. Mi sentii chiamare, ‘Ba’!’: era lui, vestito con la tuta della Nazionale insieme ad altri giocatori. Sì, credo proprio sia il segno che è il lavoro giusto per me, anche se avrei voluto averlo ancora qui perchè con nessun altro avrei potuto confrontarmi su certi temi. Però penso di essere stata fortunatissima”. 

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