• 26 Aprile 2025 23:33

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Cosa insegna la resistenza civile di Harvard alle pressioni dell’amministrazione Trump

Apr 16, 2025

Quando l’amministrazione Trump ha inviato la sua lettera a Harvard l’11 aprile 2025, non si è limitata a porre condizioni: ha dettato un piano di rifondazione politica dell’università, articolato in termini ultimativi. Si trattava di una vera e propria presa di possesso, che includeva la rimozione del potere decisionale degli studenti e dei docenti precari, l’abolizione totale delle strutture dedicate alla diversità e all’inclusione, un controllo esterno sulla “diversità di opinioni” in ogni singolo dipartimento, e l’imposizione di criteri di assunzione e ammissione esplicitamente modellati secondo un’ideologia unica, da certificare pubblicamente anno dopo anno. Non solo: veniva chiesto a Harvard di segnalare al governo gli studenti stranieri “ostili ai valori americani”, e di espellere i partecipanti a proteste studentesche che, a giudizio dell’esecutivo, avrebbero superato i limiti del lecito. Il tutto accompagnato da un’istruzione di dettaglio su come e da chi dovessero essere condotte le ispezioni, su quali strutture chiudere, su quali dipartimenti ritenere “catturati ideologicamente” e da cui rimuovere i docenti colpevoli di opinioni non gradite. La risposta di Harvard, affidata il 14 aprile a due avvocati notoriamente vicini a Trump – William A. Burck, già consigliere etico per la Trump Organization, e Robert K. Hur, l’ex procuratore speciale che aveva definito Biden “un anziano con scarsa memoria” – è stata inequivocabile. Proprio perché proveniente da figure interne al mondo legale dell’ex presidente, la loro presa di posizione ha un peso particolare.

 

La vostra lettera – scrivono – presenta richieste che, in violazione del Primo Emendamento, invadono le libertà universitarie da lungo tempo riconosciute dalla Corte Suprema.” E aggiungono: “L’università non cederà la propria indipendenza né rinuncerà ai suoi diritti costituzionali. Né Harvard né nessun’altra università privata può permettere a sé stessa di essere presa in consegna dal governo federale.” È una frase che marca un confine. In un clima nazionale dove il senatore J.D. Vance ha definito i professori “il nemico”, dove le università vengono accusate di collusione ideologica e sovvenzionate solo a condizione di conformità, questa risposta rappresenta qualcosa di più di una difesa tecnica: è un atto di resistenza civile. Non è una difesa delle opinioni progressiste, né una schermaglia amministrativa: è la riaffermazione di un principio fondativo, e cioè che la ricerca scientifica e la trasmissione del sapere non possono essere sottoposte a verifica politica. Né oggi, né mai.

 

Il merito di Harvard non sta solo nel rifiuto, ma nel fatto di averlo fatto per prima, pubblicamente, e con una chiarezza che non concede ambiguità. “Harvard è aperta al dialogo – scrivono Burck e Hur – ma non è disposta ad accettare richieste che superano l’autorità legittima di questa o di qualsiasi altra amministrazione.” Questo gesto ha un valore strutturale: senza una simile dichiarazione, ha detto Ted Mitchell, presidente dell’American Council of Education, “sarebbe stato quasi impossibile per le altre istituzioni fare lo stesso”. E in effetti, appena un mese prima, Columbia aveva ceduto, accettando il commissariamento del proprio dipartimento di studi mediorientali. Harvard ha interrotto la catena delle sottomissioni. E lo ha fatto con in mano non bandiere, ma diritto costituzionale, precedenti giurisprudenziali e consapevolezza storica. Per questo, la risposta di Harvard segna un punto di svolta. Perché non si è limitata a difendere sé stessa. Ha rifiutato l’idea che il sapere debba essere autorizzato. Ha ricordato a chi governa che l’università non è una concessione, ma una condizione della democrazia. Se qualcuno può guidare la resistenza a una visione del potere che umilia la conoscenza, criminalizza il dissenso e pretende obbedienza culturale, quel qualcuno è Harvard. E adesso lo ha fatto.

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