Non sarà il primo Nobel “torinese”, ma certo nessuno dei prescelti dall’Accademia svedese aveva finora lasciato la sua firma su alcune delle vie più difficili delle montagne piemontesi. John Michael Kosterlitz — vincitore ieri del Nobel per la fisica — sì, ma chi allora lo frequentava, erano gli anni Settanta, lo chiamava più semplicemente Mike. È l’autunno del 1969 e il giovane studente gallese di fisica teorica approda al Politecnico per uno scambio, allora non così usuale, tra università straniere.
Cerca qualcuno per arrampicare ma nessuno, tra i seri alpinisti in brache alla zuava e scarponi che frequenta il Poli, gli dà credito. Mike passa l’inverno a fare scialpinismo, pressoché da solo, poi in primavera riesce a convincere un tecnico dell’istituto di Fisica, Piero Malvassora, che bazzica nel giro dei giovani del Cai. Gli chiede, Piero, che cosa abbia fatto in precedenza e quasi stramazza quando gli parla di una delle prime ripetizioni del diedro Philipp in Civetta, la Diretta americana ai Dru e una nuova via sulla parete nord del Badile. Quel ragazzo è un mostro, i migliori arrampicatori torinesi fanno a gara per legarsi con lui, in un’epoca in cui il mondo di chi mette le mani sulla roccia viene rivoluzionato come sta accadendo nelle università.
Mike sale in valle dell’Orco con Gian Piero Motti e Gian Carlo Grassi, scopre assieme a loro le grandi lavagne di gneiss nei pressi di Ceresole ribattezzate Caporal e Sergent, per fare il verso al Capitan che furoreggiava in Yosemite: «Era incredibile, semplicemente incredibile — racconterà a Gianni Battimelli, fisico all’Università di Roma ed elegantissimo arrampicatore anche lui, che negli anni Ottanta è andato a ritrovare le sue tracce alla Brown University, dove insegna tuttora, a Rhode Island — C’era quella successione continua di pareti di granito, una più bella e più grande dell’altra, dove era ancora tutto da fare, tutto». Non c’era solo quello. Giù, di fianco alla strada, in un masso quasi cubico c’è una fessura che lo apre da cima a fondo. Mike ci infila le mani, i piedi, in un attimo è su. Riuscirà a imitarlo solo Roberto Bonelli — scomparso tre settimane fa negli Ecrins — ma sette anni più tardi.
Nel 1973 rimette il naso in valle dell’Orco e disegna il “Pesce d’aprile” alla Torre di Aimonin e l’incredibile “Sole nascente”
al Caporal, altre due vie che rimarranno nella storia dell’arrampicata. Poi, d’improvviso com’era apparso, scompare. Smette di arrampicare, i medici gli hanno diagnosticato una sclerosi multipla, «mi sembrava di non avere più il senso dell’equilibrio», racconta ancora a Battimelli.Ieri Mike è ricomparso, i suoi compagni di allora, quelli rimasti, lo hanno riconosciuto subito quando la televisione ha annunciato il suo nome.