La scommessa sulla crescita e sul lavoro, con i 656mila occupati (487mila per i dipendenti permanenti) che Matteo Renzi cita in conferenza stampa per indicare la svolta, rispetto a quella che definisce la precedente “ecatombe”.
E dunque il Jobs act, sostenuto nel primo anno di applicazione da una robusta decontribuzione per i neo assunti, poi ridotta nel 2016, che ora il premier intende riproporre per le nuove assunzioni nel Mezzogiorno. La strada individuata dal Governo per far uscire il paese da oltre tre anni di recessione passa da un mix di “stimoli” fiscali, in primis gli 80 euro ai redditi medio-bassi che costano 10 miliardi e il cui effetto finora non si avvertito nella misura sperata sul fronte dei consumi e dunque della domanda interna, e da interventi sul costo del lavoro. il caso dell’abolizione della componente lavoro dal calcolo della base imponibile dell’Irap, ora sostenuta dal taglio dell’Ires dal 27,5 al 24% confermato dalla legge di Bilancio all’esame del Parlamento. Un’azione complessiva di politica economica profondamente condizionata dalla necessit di disinnescare clausole di salvaguardia, in gran parte eredit delle passate manovre, che solo per il 2017 ammontano a 15,3 miliardi. Nel totale, a partire dal 2015, si tratta di una vera e propria bomba a orologeria, a suon di aumenti di Iva e accise, da oltre 70 miliardi.
Il Governo ha scelto di forzare sulle regole europee, invocando flessibilit alla luce dei nuovi orientamenti della Commissione Juncker, e dunque fruendo di uno “sconto” da 19 miliardi nel biennio 2015-2016, grazie a un mix di clausole per riforme e investimenti, eventi eccezionali, e nuove emergenze come la gestione del flusso dei migranti e il terremoto. Spazi di manovra cui ora vanno aggiunti i 12 miliardi previsti dalla legge di bilancio. La scommessa sulla crescita non stata ancora vinta. vero che l’economia italiana uscita dal profondo rosso di una lunga, prolungata recessione nel 2014 (revisione Istat) e che nel 2015 l’aumento del Pil stato pari allo 0,8%. Ma la ripresa procede a rilento e quest’anno saremo pi o meno allo stesso livello, il prossimo nei dintorni dell’1 per cento. Inoltre, la mancata riduzione del debito (proiettato quest’anno al 132,8% in rapporto al Pil, contro il 132,3% del 2015 e il 131,9% del 2014, mentre le slides del premier si riferiscono a una riduzione di 43 miliardi in valore assoluto) espone l’intera economia al rischio di nuove, indesiderate tensioni sui mercati, dovendo il Tesoro impegnare dai 70 agli 80 miliardi di interessi ogni anno per finanziare il passivo accumulato nei decenni passati. Le slide presentate ieri da Renzi in conferenza stampa inanellano una serie di segni pi: dalla produzione industriale in 1.000 giorni cresciuta del 2,3%, all’aumento dei consumi delle famiglie del 3% dal primo trimestre 2014 al secondo trimestre 2016. Aggregati che spalmati su due anni e mezzo possono essere discussi nella loro metodologia di riferimento. Le variabili macro mettono in luce nel quadro a legislazione vigente una pressione fiscale in leggera riduzione al 42,6% rispetto al 43,4% del 2014 e del 2015, ma nel triennio 2017-2019 non si scender al di sotto del 42,7 per cento. Con l’aggregato della spesa al 49,5% del Pil quest’anno contro il 50,4% del 2015. Un’azione pi incisiva sul versante della riqualificazione della spesa corrente primaria (la spending review) avrebbe aperto spazi decisamente pi consistenti per ridurre la pressione fiscale. Ma questo – come noto – esercizio molto complesso, e assai costoso dal punto di vista del consenso. Restano notevoli elementi di vulnerabilit, e certo l’attuale trend internazionale non aiuta. Il punto che solo una crescita pi sostenuta, almeno nei dintorni del 2% l’anno, potrebbe garantire una discesa non traumatica del debito, rassicurare i mercati e gli investitori. Variabili e incognite politiche permettendo.
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