Il rapporto tra l’acciaieria ex Ilva e Arcelor Mittal nasce ufficialmente nel giugno del 2017, con l’aggiudicazione della gara indetta dal ministero dello Sviluppo economico. Il gruppo franco indiano, il maggior al mondo, con un’offerta da 1,6 miliardi di euro, batte Acciaitalia, con protagonisti gli altri indiani di Jindal, gli industriali italiani Arvedi e Del Vecchio, assieme a Cassa depositi e prestiti, fermo a 1,2 miliardi di euro.
Per il governatore della Puglia, Michele Emiliano, per una parte del sindacato e delle associazioni ambientaliste, è quella della seconda cordata la proposta con le migliori garanzie ambientali, a cominciare dal progetto dell’uso di forni elettrici e un cambio del sistema produttivo a ciclo integrato.
Ma commissari straordinari, che hanno in gestione l’azienda dopo il sequestro della proprietà ex Riva, e l’allora ministro Carlo Calenda ritengono la proposta Am Investco quella con le migliori prospettive industriali, con un pacchetto di circa 4 miliardi di euro, tra prezzo di acquisto e futuri investimenti, per il rilancio dello stabilimento di Taranto.
Acciaitalia prova a rilanciare a 1 miliardo 850 mila euro ma la partita è considerata chiusa. A maggio 2018 arriva il nullaosta all’operazione da parte dell’Antitrust europeo: ArcelorMittal diventerà affittuario di Ilva per cinque anni, fino al definitivo acquisto del gruppo che conta, tra gli altri, anche gli stabilimenti di Cornigliano, vicino Genova.
Ma l’altro fronte che si apre è quello occupazionale. I sindacati, con l’insediamento del nuovo governo e di Luigi Di Maio al Mise, chiedono che siano rivisti gli accordi siglati dall’esecutivo precedente che prevedono, tra le altre cose, l’assunzione dei lavoratori con l’utilizzo del Jobs act e, quindi, senza la tutela dell’articolo 18.
La trattativa, preceduta dal consulto dell’Avvocatura dello Stato sulla legittimità del contratto con Mittal, si conclude a settembre dello scorso anno: i lavoratori saranno assunti con i vecchi contratti e il medesimo livello economico acquisito. Così accade dall’1 novembre, ma in 2.600 finiscono in cassa integrazione fino al 2023. Un migliaio, nel frattempo, decidono di uscire definitivamente dalla fabbrica e accettare l’incentivo all’esodo.
In aprile scoppia il caso dello scudo penale in favore dei commissari e dei dirigenti della società affittuaria e acquirente. Dopo un tira e molla la norma, se pur parzialmente, è introdotta legandola all’attuazione del piano ambientale.
Sempre ad aprile, proprio a Taranto, Di Maio ne aveva annunciato l’abolizione. Ma è un emendamento al decreto legge Salva imprese, approvato dalle Camere a ottobre, a eliminare definitivamente l’immunità penale che, per i dirigenti Mittal, risultava essere dirimente nel contratto di acquisto dell’azienda.
Dopo mesi di annunci e minacce sul possibile passo indietro, il 4 novembre arriva l’ufficialità del disimpegno di Arcelor Mittal, con un comunicato diretto ai commissari straordinari. I motivi sarebbero da ricercare proprio nell’assenza dello scudo penale e altre questioni, come quelle riguardanti l’altoforno 2, posto già sotto sequestro, da spegnere, secondo le prescrizioni della procura, entro il prossimo 13 dicembre.