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Per l’assegno di divorzio non basta che l’ex sia ricco

Ott 24, 2019

cassazione

Dopo la sentenza Grilli e quella a Sezioni unite, la Cassazione (Prima Sezione) torna sul criterio di autosufficienza per negare il mensile: non può essere un prelievo forzoso sui redditi alti

di Valentina Maglione e Giorgio Vaccaro

24 ottobre 2019


L’assegno post-divorzio non è più per sempre: ecco quando si ottiene e come si perde

3′ di lettura

Tra marito e moglie che si lasciano non bastano lo squilibrio economico e il reddito alto di uno dei due per far scattare l’assegno di divorzio. Non è infatti accettabile l’idea che il più ricco debba pagare al più debole tutto quanto sia per lui sostenibile: così l’assegno diventerebbe quasi un «prelievo forzoso» in misura proporzionale ai redditi. Lo scrive la Cassazione che, con tre sentenze depositate il 7 ottobre 2019, ridefinisce le caratteristiche e i confini dell’assegno di divorzio, di fatto sottolinendo che il parametro principale per attribuire e quantificare l’assegno debba essere quello dell’autosufficienza economica.

L’evoluzione

Il percorso è iniziato più di due anni fa, quando la Prima sezione della Suprema corte, con la sentenza 11504 del 2017 (relatore Lamorgese) relativa al divorzio tra l’ex ministro Vittorio Grilli e Lisa Lowenstein, ha superato il criterio del tenore di vita, adottato fino a quel momento per determinare l’assegno. I giudici hanno infatti ricordato che la legge sul divorzio riconosce il contributo al coniuge che «non ha mezzi adeguati o comunque non può procurarseli per ragioni oggettive». Dal 1990, il parametro per valutare l’adeguatezza dei mezzi è stato individuato proprio nel «tenore di vita» analogo a quello che si aveva durante il matrimonio. Ma si tratta di un criterio, che, a distanza di 27 anni, la Cassazione abbandona: è, in sostanza, una forzatura della norma, fatta perché, nel 1990, il matrimonio era ancora inteso in senso «patrimonialistico», come «sistemazione definitiva», e occorreva prevedere una tutela per la sua fine. Oggi, invece, scrivono i giudici, il matrimonio è un «atto di libertà e di autoresponsabilità» e un «luogo degli affetti e di effettiva comunione di vita, in quanto tale dissolubile».

L’assegno di divorzio, quindi, non deve essere riconosciuto per “prolungare” gli effetti patrimoniali del matrimonio ma solo quando l’ex non è «economicamente indipendente» o non è effettivamente in grado di esserlo.

Un parametro netto, su cui la Cassazione (questa volta a Sezioni unite) è tornata l’anno dopo con la sentenza 18287 del 2018. I giudici hanno affermato che per attribuire e quantificare l’assegno di divorzio occorre individuare un «criterio integrato», fondato sulla «concretezza e la molteplicità dei modelli familiari attuali». Non c’è, quindi, solo l’aspetto assistenziale, ma anche la funzione perequativo-compensativa. Questo significa che occorre tenere conto non solo dell’indipendenza economica (o della possibilità di conquistarla) ma anche del contributo fornito dal coniuge più debole economicamente a formare non solo il patrimonio comune ma anche quello dell’altro coniuge; l’intenzione è quella di salvaguardare la posizione del partner (spesso la moglie) che rinuncia a prospettive di lavoro e di carriera per occuparsi della famiglia e lasciare invece più libero l’altro coniuge (tipicamente il marito) di realizzarsi professionalmente.

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