Cherif in sei anni è passato dal Sud della Guinea, l’Africa dell’eterna guerra a intermittenza, allo Stadio Euganeo. L’esordio nella Serie B del campionato di calcio italiano: Padova-Livorno, tre sabati fa. Ha 19 anni, ed è entrato al 93′. Centrocampista d’interdizione. In mezzo ai sei anni, per Cherif Karamoko, ci sono un padre imam ucciso dentro casa dalle milizie cristiane, una madre morta con un certificato in cui si legge “Ebola”, un viaggio su un camion nel deserto, le prigioni libiche, due giorni e una notte tra le onde di un Mediterraneo invernale. La perdita in quel mare del fratello, insieme ad altri 119 migranti (su 143). “Era stato mio fratello a convincermi a venire in Italia. Avevo nemmeno tredici anni, piangevo tutto il giorno. Lui lavorava in Libia, scappato dalla nostra guerra, e mi ha mandato a prendere a Conakry, la capitale. Ha pagato tutto lui, autisti, carcerieri, scafisti. Poi, è salito con me sul barcone a Tripoli: “Non abbiamo più nulla da perdere”, mi ha detto. Il barcone imbarcava acqua. Quando si è aperto alle onde, mi sono aggrappato a una boa, quelle che frenano l’impatto in porto. Mio fratello non l’ho visto, non l’ho visto più. Gli dedicherò tutto quello che riuscirò a fare nella vita. A scuola, nel calcio”.
Perché lei, Cherif, ha sempre voluto giocare a calcio.
“Da quando ho iniziato a camminare, a pensare. Mamma, le dicevo, voglio mettere una maglietta e farmi vedere da te in tv. Lei rideva: ‘Non sognare troppo, noi siamo poveri'”.
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E’ cresciuto a Nzérékoré, una città grande come Padova.
“Andavo in classe e poi per strada. La terra rossa, i campetti inventati dal nulla. Due porte, una palla”
Che calciatore è?
“Io non lo so, me lo sono fatto spiegare. Dicono forte fisicamente, con i piedi da affinare e la tattica tutta da imparare”.
Lei ha visto suo padre morire?
“Nel salotto di casa, voi lo chiamate così. Gli hanno sparato perché era il riferimento musulmano della comunità. E ho visto mio fratello più grande, sette anni più grande, sparare ai suoi assassini, buttarne giù diversi. Papà è morto in ospedale, mio fratello è scappato in Libia e da quel giorno ha iniziato a mettere via i soldi per togliermi dall’inferno. Mi telefonava tutte le sere, aveva paura volessero vendicarsi su di me”.
È il 2013, lascerà la Guinea tre anni dopo.
“Un viaggio di nove mesi verso il Nord. Mali, Burkina Faso, Niger. I pagamenti sono iniziati al confine con la Libia. Alla prima frontiera le guardie mi hanno picchiato, senza un motivo. Ci hanno buttati in trentacinque su un furgone. Avevamo un bidone da dieci litri per attraversare il deserto, acqua per quattro giorni. Se l’autista si perde, e succede, il carico muore”.
Della traversata che ricorda?
“Siamo partiti che da voi era come Natale, la mattina dopo abbiamo visto il buco sulla barca, davanti. Quando sono caduto in mare la benzina sversata dalle taniche mi ha bruciato la pelle. Sono stato quattro ore tra le onde. Marina militare, volontari, non so chi mi ha salvato”.
In Italia?
“Porto di Reggio Calabria, poi ci mandano in duecentocinquanta a Villa San Giovanni. Una struttura senza riscaldamento. Per quattro mesi mangio poco e male, vado a cercare i biscotti buttati nei bidoni della spazzatura”.
Poi?
“Mi faccio forza e porto una decina di amici in Prefettura a Reggio: “Non voglio rubare, voglio giocare a pallone”. Ci spediscono al Nord, Battaglia Terme, provincia di Padova. Una cooperativa sociale mi accoglie. Mi sfama e mi fa studiare l’italiano. Passo l’esame di terza media. Soprattutto gioco a pallone. Tornei a cinque, a otto, a nove. Ho diciassette anni e non so ancora nulla del calcio italiano. In un torneo mi premiano: miglior giocatore. Arianna, la più attiva della cooperativa, inizia a chiamare il Padova calcio. “Dovete fargli un provino, ha qualcosa in più”. Insiste. Un giorno mi porta allo stadio mentre gioca la Primavera: lo scorso dicembre inizio ad allenarmi. A maggio mister Centurioni mi fa esordire in B, viene a vedermi anche il presidente Boscolo Meneguolo. In Guinea mi è rimasta solo una sorella. Io mi sento padovano, e ora anche un calciatore”.