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Torino, sessanta giuristi avvertono: “Virus informatici per indagini di polizia, servono regole”

Lug 27, 2016

Sessanta giuristi intervengono sui metodi d’indagine che hanno portato all’arresto dell’assassino di Bruno Caccia. Parte dall’Università di Torino, ma sta raccogliendo adesioni negli atenei di tutta Italia un appello perché si regolamenti l’uso dei cosiddetti “captatori informatici”, cioè quei virus chiamati Trojan che vengono installati in cellulari e tablet dalle forze dell’ordine e che sono stati utilizzati dagli investigatori per intercettare le conversazioni tra Rocco Schirripa, presunto assassino del procuratore capo di Torino, e i boss dei calabresi, tra cui Domenico Belfiore condannato in via definitiva come mandante dell’omicidio. Nei dialoghi intercettati con i trojan si parlava del delitto del 26 giugno 1983 e di chi vi avrebbe partecipato e proprio quelle intercettazioni sono uno degli elementi di forza dell’inchiesta che a portato al nuovo processo per la morte di Caccia.

“Il captatore informatico viene iniettato nel dispositivo portatile e permette di captare tutto il traffico dati in arrivo e in partenza dal dispositivo (navigazione e posta elettronica compresa), attivare il microfono e apprendere per tale via i colloqui che si svolgono nello spazio che circonda il soggetto dovunque egli si trovi, ma anche mettere in funzione la web camera, permettendo di carpire le immagini – scrivono i giuristi – La Costituzione e la Convenzione europea dei diritti dell’uomo richiedono che simili ingerenze dell’autorità pubblica nella vita privata degli individui debbano essere previste e regolate dal legislatore”. Una presa di posizione che arriva per la maggior parte dagli ordinari di procedura penale d’Italia, ma che ha visto la firma anche di una costituzionalista come Anna Maria Poggi, inserita dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano tra i “saggi” che dovevano riformare la Costituzione: “Con i trojan si possono perquisire l’hard disk e fare copia delle unità di memoria del sistema informatico preso di mira, decifrare tutto ciò che viene digitato sulla tastiera (keylogger) e visualizzare ciò che appare sullo schermo del dispositivo bersaglio (screenshot)” aggiungono nell’appello al Parlamento.

Non un appello contro, ma la richiesta di mettere delle regole: “Non siamo contro lo strumento. È chiaro che le tecniche investigative si devono adeguare alle novità, ma qui c’è bisogno di

regolamentare uno strumento molto invasivo nella vita privata e nella libertà delle comunicazioni” spiega Laura Scomparin, ordinaria di procedura penale e direttrice del dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Torino. “Se non si fa una legge che dica per quali tipi di reato e per quale gravità degli indizi di colpevolezza si possono utilizzare non si rispetta la riserva di legge prevista dalla Costituzione” aggiunge l’esperta.

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